Versi per la libertà: intervista a Pippo Pollina

 

Sabato 28 gennaio, presso il Teatro Dopo Lavoro Ferroviario, si è esibito il cantautore siciliano Pippo Pollina, amico di Libera per sensibilità e impegno civile. L’abbiamo intervistato perché pensiamo che l’antimafia sociale, intesa come impegno alla costruzione di una coscienza civile solida – unico antidoto all’ulteriore deriva culturale – si pratichi in diversi modi, quindi anche con la musica. La musica che è narrazione di un sogno, di un viaggio, di un’utopia, ossia espressione delle migliori aspirazioni e sentimenti dell’uomo

Pippo, com’è l’Italia vista dall’estero, come italiano e come artista emigrato [a Zurigo, ndr]?

Vivo un rapporto ambivalente con l’Italia, emozionale e razionale, e della Sicilia soprattutto. È stata proprio la musica, grazie ai concerti in giro per la penisola, a consentirmi di sviluppare un forte senso di appartenenza all’italianità. Sul fronte razionale, penso che l’Italia sia un Paese incapace di amor proprio. E quando lo esprime, lo fa nelle cose più inutili e superficiali, non per quelle di sostanza. Parlo non solo per me, ma per tutti coloro, soprattutto ricercatori e scienziati, che avrebbero voluto spendere il proprio talento per la comunità italiana, e che invece spesso sono costretti ad una scelta infelice. Il vero motivo per cui sono emigrato – avevo 23 anni – è emerso nel corso degli anni. All’inizio pensavo di prendermi una pausa. Ho iniziato a viaggiare, prima tre mesi, poi sei, poi un anno… L’esilio non sempre ha a che fare con la costrizione, a volte dipende da un’insofferenza psicologica. Ho capito in quel viaggiare che per fare ciò che desideravo, ovvero il cantautore, con le mie idee e il mio stile, dovevo andar via, cambiare popolo e cultura. In Italia tutto questo sarebbe stato impossibile: se fossi rimasto, magari avrei fatto il musicista, ma nel tempo libero, piegandomi a logiche che non condivido.

Quando e perché hai deciso di tornare a cantare in Italia?

Avendo riscontrato un buon successo oltralpe, alcuni giornalisti e amici, ad un certo punto iniziarono a sollecitarmi, chiedendomi di testare la scena italiana. Iniziai a desiderare di esibirmi davanti ad un pubblico italofono, che comprendesse la lingua delle mie canzoni e che condividesse il mio stesso background culturale. In quel periodo (1997), in Germania fu pubblicato il libro “Camminando camminando” che finì nelle mani di Leoluca Orlando, allora sindaco di Palermo ed europarlamentare. Incuriosito, Orlando volle incontrarmi, e da lì – era il 2000 – iniziò un emozionante e coinvolgente percorso di “ritorno”. Non fu facile, perché di fatto ricominciai da zero: qui non mi conosceva nessuno…

Quali sono i temi che caratterizzano le tue canzoni, se ve ne sono alcuni dominanti?

Ci sono stati alcuni progetti discografici riconducibili al “concept album” (Rossocuore – il disco “romanzo”, Bar Casablanca – il disco “viaggio”…), ma in generale penso che, in fondo, ogni cantautore non faccia altro che cantare l’amore: amore per la giustizia, per un amico, per una donna, per il proprio paese, per la natura…Mi sembra riduttivo dunque, quando si parla di canzone d’autore, attribuire definizioni come “musica impegnata”, anche se certo bisogna distinguere tra categorie di cantanti con stili e motivi tra loro distanti.

Cosa racconta lo spettacolo di questa sera, dal titolo “Abitare il sogno”?

Si tratta di un format che mescola musica, immagini e racconti, tra cui un breve estratto dalla biografia scritta da Franco Vassia [Abitare il sogno – Vita e musica di Pippo Pollina con prefazione di Gian Carlo Caselli e introduzione di Franco Battiato], molto simile a quello proposto lo scorso anno in Conservatorio. Voglio raccontare il mio percorso artistico e umano, utilizzando oltre alla musica alcuni filmati che hanno segnato la mia carriera all’estero, come le immagini di Giuseppe Fava, le prime esibizioni nelle piazze europee, i duetti con Linard Bardill e Konstantin Wecker, la straordinaria tournée con il Conservatorio di Zurigo in occasione dei miei 25 anni di carriera.

Ci racconti qualcosa degli anni in cui eri ancora a Palermo, quando ti sei interessato all’antimafia e hai conosciuto la rivista “I siciliani” di Giuseppe Fava?

L’antimafia di allora era ai primordi. Siamo nei primi anni ’80, prima della famosa testimonianza di Buscetta, che ha rappresentato una svolta. A quel tempo, di mafia non si sapeva granché: non c’erano prove e si pensava che si trattasse, in fondo, di un’invenzione giornalistica. L’argomento “mafia” non era diffuso a livello popolare: la Piovra arrivò qualche anno dopo, sui giornali non c’erano notizie sull’argomento. Uccisero Mattarella, Chinnici e tanti altri, ma per istruire il Maxi Processo dovemmo assistere agli omicidi di Pio La Torre e Dalla Chiesa. Fu quello il contesto in cui nacque il primo movimento antimafia. Anche noi studenti di sinistra capimmo che fare lotta politica voleva dire fare lotta alla mafia. Le due cose andavano di pari passo, perché la mafia aveva costruito un sistema di controllo assieme ai partiti politici. Scardinare questo legame era fondamentale. Anche io, insieme ad alcuni compagni con cui condividevamo l’aspirazione al giornalismo, decisi di impegnarmi su questo fronte. A Palermo c’era tensione. I giovani non avevano luoghi di aggregazione, i locali erano chiusi, ci si vedeva al massimo a casa di amici, sotto lo stretto controllo delle famiglie. Quando ci imbattemmo nella rivista “I siciliani”, diretta da Giuseppe Fava, restammo folgorati. In lui ritrovammo quell’intuizione secondo cui la lotta politica andava di pari passo con la lotta alla mafia. I redattori della rivista erano giovanissimi, avevano tra i ventotto e ventinove anni, erano fortissimi, dei pazzi scatenati! Non era cosa da poco, in quella situazione, denunciare senza mezzi termini.

Ascoltandoti emerge da un lato la peculiarità di quella fase, dall’altro un’incredibile continuità. Oggi l’argomento mafia è più “popolare” di allora, ma il fulcro della questione, – il vicendevole sostegno tra mafia e politica – resta sempre “nuova” ed irrisolta. Cosa pensi dell’evoluzione “culturale” e “civica” degli italiani? Negli ultimi trent’anni si è cambiati in meglio o in peggio secondo te?

La cultura italiana è connaturata al non-cambiamento, confermando la tragica frase di G. Tomasi di Lampedusa “Bisogna cambiare tutto affinché tutto resti com’è”, che è di una modernità drammatica. Tangentopoli (1992) ne è un esempio: ne emerse un quadro desolante, tutti i partiti erano finanziati illegalmente, e tanti singoli personaggi erano corrotti. Dopo il clamore dello scandalo, la corruzione è rimasta agli stessi livelli di prima, anzi si è allargata ad altri rami della società (lo sport, per esempio).Vuol dire che gli italiani non vogliono cambiare. Il potere ha alimentato se stesso, soprattutto negli ultimi 25 anni, affermandosi e diffondendo un modello di società organico alla “cultura del potere”: cercare di rendere le masse il più possibile ignoranti e dipendenti, dunque facilmente manipolabili. Parlare di Seconda Repubblica è una presa in giro di chi allora aveva trent’anni e ha voluto illuderci del cambiamento, senza vergogna, perpetuando lo stesso sistema di potere: non producendo nulla, creando nuove clientele, alimentando solo se stessi e gli apparati con i soldi pubblici. 

Cosa possiamo fare?

Ciascuno deve darsi da fare nel proprio piccolo. D’altra parte, cosa ci rimane? È più difficile paradossalmente farlo in democrazia, perché i processi di sviluppo sono lenti. Se ci fosse una guerra forse saremmo agevolati. Alla seconda guerra mondiale è seguito un risveglio culturale, abbiamo prodotto una delle più belle Costituzioni al mondo, il cinema di Pasolini, la musica d’autore di de Andrè. Significa che ce la possiamo fare. Non è bene augurarsi una guerra, quindi dobbiamo farlo in queste condizioni. È necessario dar spazio ad una generazione giovane che sia guidata da valori rivolti al bene di tutti e non di pochi. Io faccio la mia battaglia con la musica. E, senza internet, forse non sarei qui. La rete mi consente di incontrare gente e trovare sinergie, anche se la canzone d’autore è un’arte desueta, che piace a pochi. Ma tra questi pochi, sicuramente ci sono ancora tanti che non mi conoscono e che potrebbero apprezzarmi.

Quando vedremo la tua opera teatrale musicale Ultimo Volo [che narra della strage di Ustica, ndr] a Torino?

È uno spettacolo molto bello ed impegnativo, che coinvolge molte persone…Spero di portalo qui al più presto.

 

(Leggi la biografia integrale; visita il sito www.pippopollina.com )

 

 

31/01/2012
Articolo di