Una violenza bella e buona

 

di Pierluigi Ubezio

 

E’ un villaggio africano, una bidonville; sono lì in due, nascosti dietro a dei barili metallici vuoti. Li ho inquadrati e sto aspettando, trattenendo l’impazienza. Poi uno dei due tira su la testa, che io centro al primo colpo; l’altro la prende a male ed esce allo scoperto sparando a casaccio: prendo anche lui alla testa con un colpo solo.

Posso procedere.

Mi sono divertito? Sì.

Lo rifarei? Lo rifarò tra poco, appena riaccenderò la PS3 e il mondo di Call of Duty MW3 mi si aprirà davanti.

Sono una persona violenta? No.

Ucciderei nella realtà due persone con un Accuracy International AW calibro 7,62 con mirino telescopico Schmidt & Bender? No.

Le ultime due risposte però esulano dalla mia soggettività, perché le scuole di pensiero sono due e secondo alcuni quanto scritto sopra denota una personalità violenta se non addirittura deviata, che probabilmente nel contesto adeguato non esiterebbe un istante a commettere un duplice omicidio.

 

Warren Spector, ex Eidos Games, ha recentemente esternato il suo disgusto nei confronti della violenza nei videogames affermando: “Sono rimasto shockato dalla quantità di giochi violenti e dall’entità della violenza che viene presentata all’interno di essi. Dovremmo smetterla. Non sono un moralista o uno che ama puntare il dito, ma in certi casi si sta veramente andando troppo oltre e questo alla lunga causerà problemi”

Però a che problemi allude?

 

Ricordo (quasi) perfettamente a cosa giocavo quando ero un bambino e non avevo un pallone tra i piedi o quando non c’erano le condizioni meteo per andare in bicicletta: giocavo ai soldatini, ai pirati, ai cowboys.

I soldatini americani uccidevano sistematicamente i soldatini nazisti.

I pirati uccidevano sistematicamente la ciurma delle navi da depredare.

I cowboys uccidevano gli indiani.

Morte, sangue, sopraffazione e guerra.

 

Tutti i bambini hanno giocato a queste cose, no? Eppure non tutti si aggirano con la bava alla bocca per le strade del mondo a sgozzare inermi nongiocatori.

Alcuni dei bambini che giocavano alla guerra poi l’hanno fatta veramente, altri sono diventati cittadini modello, altri ancora non si ricordano nemmeno di essere stati piccoli; il fatto è che se c’è un nesso tra violenza rappresentata e violenza compiuta, va ancora trovato, perché è davvero troppo semplice dare del sociopatico a uno che gioca al Call of Duty solo perché ci gioca.

Mi sono sentito anche dire: “Se ci giochi è un conto, ma se ti ci diverti anche…beh, è un altro paio di maniche”.

Ma come sarebbe: ci dovrei giocare perché mi da fastidio? O per sensibilizzarmi maggiormente alla pratica della nonviolenza? E’ del tutto evidente che mi ci diverto!

 

Credo che prima di fare associazioni o di certificare la malattia mentale di chi ama giocare ad alcuni videogiochi, sia bene sgombrare il campo dall’ipocrisia di fondo che vela tutto questo annoso dibattito. Il rapporto tra giovani e violenza non può passare da uno schermo, perché vorrebbe dire che prima dell’avvento della tv l’umanità viveva in un Eden privo di guerre e sopraffazioni.

Non mi pare sia andata così.

 

 

 

13/07/2012
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