Quante volte può finire una guerra?


















Almeno due, stando alla recente storia dell’Iraq.La prima volta è stata il primo giorno di maggio del 2003, dopo un mese e dieci giorni di occupazione da parte delle truppe americane. La seconda, il 18 agosto di quest’anno, con il ritiro di gran parte delle truppe americane in largo anticipo sulla data annunciata – 31 agosto. E qualcosa fa pensare che finirà ancora, qualcosa come quei cinquantamila soldati non combattenti rimasti sul posto in qualità di consiglieri – lo stesso nome dato alle prime truppe entrate in Vietnam.


Come annunciato dal presidente americano Obama nei mesi scorsi, l’Iraq è stato riconsegnato agli iracheni.Le truppe americane se ne sono andate senza un saluto né un ringraziamento, attraversando gli ultimi sette anni come tute semoventi, senza nessuna interazione con i civili. Lo stesso indotto dell’occupazione – rifornimenti, cibo, acqua – è stato importato dall’estero, insieme al personale utile a gestirlo. La paura del terrorismo e la necessità di mantenere la Green zone, la zona di sicurezza, ha limitato fortemente i rapporti col territorio.


















Così, gli iracheni si ritrovano in un Paese distrutto e inquinato dai residui della guerra, classificato sotto il capitolo VII, per le Nazioni Unite – ovvero, come paese pericoloso per la comunità internazionale – dissanguato dei suoi migliori cervelli migrati all’estero durante il regime, provato dalla mortalità infantile e dalle infrastrutture carenti a causa del lungo embargo. Altri ostacoli rendono difficile la rinascita politica: i rapporti con l’Iran, che appoggia i partiti sciiti, particolarmente forti e legati ad alcuni gruppi terroristici – e la conseguente preoccupazione dei Paesi sunniti, come l’Arabia Saudita.


L’economia soffre della mancanza d’acqua per l’agricoltura, a causa della permanenza di conflitti di confine con l’Iran sul fiume Shatt-al-Arab e delle continue riduzioni del flusso del Tigri e dell’Eufrate da parte della Turchia. Inoltre il debito estero continua ad essere ingombrante, e il “si stava meglio quando si stava peggio” serpeggia sulle bocche dei comuni cittadini. Il sistema educativo non è sufficiente a rimpolpare la classe intellettuale, la disoccupazione resta altissima.


Viene in mente Gaber: la libertà non è uno spazio libero, la libertà è partecipazione. Gli iracheni dispongono di spazio libero in quantità, ora, ma per renderli davvero protagonisti del loro destino è necessario farli tornare parte di una comunità internazionale attenta.

07/09/2010
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