Primavera araba: è ora di dire BASTA alla corruzione!

 

Lasciati CORROMPERE dall’onesta informazione.

Rubrica a cura del Presidio Cassarà.


Tunisia, Egitto, Algeria, Libia, Bahrein, Yemen, Siria sono in fermento da mesi.

Esiste forse un legame tra le rivoluzioni del mondo arabo e la corruzione?

Da quando il mondo arabo ha iniziato la sua rivoluzione, migliaia di cittadini sono scesi in piazza. Abbiamo visto persone comuni occupare le strade per urlare con forza il proprio diritto di avere diritti contro istituzioni dominate dalla logica del favore. Ma c’erano anche gli intellettuali, che hanno rivendicato l’apertura al pluralismo e il rispetto delle procedure democratiche che i loro governi non hanno saputo garantire, se non a parole. E i migranti di ieri e quelli di domani hanno manifestato, insieme: gli uni nella speranza del riscatto di terre tanto amate quanto lontane, gli altri per non essere costretti a lasciarle.

Moltissimi, soprattutto i giovani, si sono riuniti, grazie all’utilizzo delle tecnologie informatiche e di internet, per protestare contro le élites al potere e la loro gestione personalistica delle istituzioni e delle risorse del Paese. Hanno preso sul serio la democrazia, smentendo le analisi di coloro che individuavano il mondo arabo come l’unica sorprendente eccezione nell’era della “democrazia globale”. Se, infatti, nel 1995 vi erano ormai tre democrazie ogni cinque stati e tutte le maggiori culle culturali erano arrivate ad includere una presenza democratica significativa, ancora nel 2010, dei sedici stati indipendenti arabi esistenti in Medio Oriente e sulle coste del Nord Africa, il Libano era l’unico che fosse mai stato una democrazia. Ora, invece, dal Marocco allo Yemen, si alzano con forza le grida di popoli desiderosi di cambiamento, non più disposti a sopportare che i pochi (siano essi i vertici delle dittature militari, l’intelligentia dei regimi o i clan dei monarchi) si approprino della ricchezza che dovrebbe essere dei più.

Esiste un legame tra le rivoluzioni del mondo arabo e la corruzione?

Secondo Transparency International (www.transparency.it),www.transparency.it la rete di associazioni che lottano contro la corruzione in tutto il mondo fondata nel 1993, la corruzione è ampiamente diffusa in tutti i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Sebbene vi siano differenze anche significative da paese a paese, tutti quelli appartenenti a quest’area si collocano da anni al di sotto della media mondiale nella classifica stilata sulla base dell’Indice di Percezione della Corruzione (CPI). Questo strumento, ottenuto sulla base di varie interviste e ricerche somministrate ad esperti del mondo degli affari e a prestigiose istituzioni, raccoglie ogni anno i dati necessari per determinare la percezione della corruzione nel settore pubblico e nella politica in 178 Stati diversi. Nel 2010, mentre il Bahrein e la Tunisia si sono classificati addirittura al di sopra dell’Italia (che ha ottenuto soltanto il 67° posto), Marocco, Algeria, Egitto, Yemen e Siria sono state collocate ben più in basso e la Libia, con il suo 146° posto, si è guadagnata la posizione di Paese più corrotto dell’area.

Tale fenomeno è strettamente legato ai limiti dei governi nazionali, all’infrastruttura politica dello Stato e a quella del settore pubblico (tipicamente molto esteso, con troppo personale e salari bassi) e fiorisce anche grazie alla scarsità di opportunità per un’effettiva e libera partecipazione alla sfera pubblica da parte della società civile.

Non è un caso, allora, che uno degli slogan comuni alle diverse proteste sia stato quello che accusava i governanti di essere “a bunch of thieves”, un pugno di ladri. Così la richiesta di porre fine alla corruzione dilagante si è affiancata a quelle di maggiore libertà e di dimissioni della classe politica attuale. È successo in Egitto, dove l’ex Presidente Hosni Mubarak, deposto l’11 febbraio dopo 18 giorni di proteste in tutto il Paese, nei prossimi mesi dovrà rispondere davanti ai tribunali egiziani delle accuse di corruzione mosse nei confronti suoi e della famiglia da Mustafa Bakri (un membro del Parlamento che aveva perso il suo posto dopo aver presentato documenti simili nei confronti di alcuni ufficiali del regime). Gli stessi slogan si sono levati in Giordania, in Yemen, in Algeria. Così anche in Marocco, nonostante le aspettative che erano state riposte nell’azione riformatrice del giovane Re Mohammed VI, che avrebbe dovuto porre un freno all’endemica

corruzione che aveva caratterizzato il regno del padre Hassan II. Al contrario, alcuni documenti diplomatici resi noti da Wikileaks nel dicembre scorso riportanti le dichiarazioni di uomini d’affari marocchini, denunciavano la persistenza ed addirittura l’istituzionalizzazione del fenomeno proprio sotto il regno di Mohammed VI.

Corruzione e Islam: un binomio inevitabile?

Nella maggioranza dei Paesi arabi la corruzione è divenuta un vero e proprio strumento di governo, il modo attraverso il quale la classe politica è riuscita per decenni a mantenere il controllo sulla popolazione e a preservare la propria supremazia. La pervasività del fenomeno ha addirittura portato alcuni analisti a ritenere che la corruzione fosse un elemento culturale, legato alla religione islamica. Tuttavia, contrariamente a tale impostazione, l’Islam considera la corruzione uno dei peccati capitali e dunque le ragioni della sua ampia diffusione in tutta l’area dei Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa vanno ricercate altrove.

Esse risiedono piuttosto nell’interazione tra elementi strutturali che caratterizzano, da un lato, la società e, dall’altro, l’organizzazione del potere in molti di questi territori. Innanzitutto, si registra in generale una mancanza di trasparenza ed una limitata possibilità di accesso all’informazione, la quale è spesso controllata o censurata dai governi. Che le promesse di libertà e di facilitazione delle comunicazioni offerte da internet e dai social media rappresentino una sfida allo stretto controllo di questi ultimi è dunque evidente ed è stato confermato dall’oscuramento delle reti internet e di telefonia ordinato dalle autorità nei paesi in rivolta, nel tentativo di scongiurare ulteriori manifestazioni anti-governative.

Dal punto di vista dell’organizzazione statale, a sua volta, la subordinazione del potere giudiziario all’esecutivo contribuisce ad indebolire la repressione penale dei casi di corruzione, garantendo proprio all’élite politica che da tali pratiche trae benefici personali l’impunità. A ciò si aggiungono, poi, l’assenza o l’insufficienza dei controlli nei confronti delle imprese, funzionale al fiorire di traffici e di scambi illeciti tra le élites politiche ed economiche, alla quale corrisponde invece, nel settore pubblico, un eccesso di regolamentazione e di burocratizzazione della vita della società civile. Quest’ultima ha lo scopo non dichiarato di creare nei cittadini una forte dipendenza dal governo al fine di soddisfare i propri bisogni primari e rappresenta un fertile terreno per lo sviluppo delle pratiche corruttive al livello dell’amministrazione. Infatti, mentre ciò crea un potenziale bacino d’offerta per la corruzione, formato da cittadini frustrati dalla lentezza della macchina burocratica, dall’altra parte il gran numero di assunzioni di dipendenti pubblici (funzionale alla creazione del consenso) ed i bassi salari conseguenti ne favoriscono la domanda.

Quale lezione per l’Italia?

È proprio la diffusione della corruzione al livello della pubblica amministrazione, d’altronde, a caratterizzare le società non ancora pienamente democratiche e dotate di una struttura elitaria. Mentre, infatti, anche nelle società democratiche il livello di corruzione dei vertici politici ed economici della società può essere elevato, in esse è più difficile che la maggioranza della popolazione accetti che alcuni gruppi privilegiati (come quello dei funzionari) possano trarre un ingiusto vantaggio dalla propria posizione, grazie alla propria fedeltà all’élite al potere. È al livello dell’amministrazione, dunque, che i processi democratici infliggono i più gravi colpi alla corruzione, attraverso la trasparenza, la responsabilità amministrativa ed il principio di legalità.

È allora da questi principi cardine, forse, che dovrebbero ripartire la ricostruzione e la riforma delle istituzioni nei paesi che hanno sperimentato o stanno ancora vivendo i moti rivoluzionari della Primavera araba. È ancora una volta su questi principi, inoltre, che ognuno di noi dovrebbe costantemente vigilare per preservare proprio quella democrazia cui l’Occidente – e con esso l’Italia – si fregia di aver dato i natali e che conquista, oggi, nuovi entusiasti difensori.


note

1-L. Diamond, Perché non esistono democrazie arabe?, 2010, consultabile all’indirizzo: http://www.reset.it/media/file/Diamond_democrazia_ITA_DEF.pdf.

2-Dati di Transparency International, CPI (Corruption perception Index), consultabili all’indirizzo: http://www.transparency.it/ind_ti.asp?idNews=153&id=cpi.

3-Transparency International, analisi della situazione dei MENA Countries, all’indirizzo: http://www.transparency.org/regional_pages/africa_middle_east/middle_east_and_north_africa_mena.

4-La notizia è stata data anche dalla CNN il 3 marzo 2011 (vedi ad esempio http://edition.cnn.com/2011/WORLD/meast/03/03/egypt.mubarak.corruption/).

5-La notizia risale al 6 dicembre 2010 (vedi all’indirizzo: http://www.guardian.co.uk/world/2010/dec/06/wikileaks-cables-morocco-royals-corruption)

6-Tutte le informazioni di cui al presente paragrafo sono tratte da J. Rachami, Instituzionalized Corruption: An Instrument of Governance in the Middle East and North Africa, CIPE (Center for International Private Enterprise), 31 luglio 2003, consultabile all’indirizzo: http://www.cipe.org/pdf/publications/fs/rachami.pdf



24/04/2011
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