Pena capitale in India: se non ci pensa Cameron, pensiamoci noi

Erano otto anni che non si uccideva qualcuno per legge in India. La sospensione della moratoria sulla pena di morte, iniziata nel 2004, è arrivata dopo l’insediamento del nuovo presidente, Pranab Mukherjee, che ha iniziato da subito a respingere richieste di grazia – sette in tutto, e cinque sono ancora in sospeso. Saibanna Ningappa Natikar, Gnanprakasham, Simon, MeesekarMadaiah, e Bilavendran rischiano di essere giustiziati se non arriva una sufficiente risposta della società civile entro aprile.

 

Secondo Amnesty International, che denuncia il fatto e sta promuovendo una campagna di partecipazione dal basso nella prevenzione di queste morti, le ultime esecuzioni sono state annunciate solo dopo essere avvenute, per impedire qualsiasi tipo di ingerenza. Il primo, Ajmar Kasab, è stato giustiziato il 21 novembre dello scorso anno per il suo coinvolgimento negli attacchi di Bombay nel 2008. La seconda sentenza è stata eseguita il 9 febbraio, una decina di giorni fa: a morirne è stato Afzal Guru, accusato di aver fatto parte dell’attacco al Parlamento indiano nel dicembre 2011. Persino la sua famiglia lo ha saputo quando era troppo tardi per salutarlo.

 

La presenza di David Cameron, primo ministro inglese, in India in questi giorni, intensifica l’attenzione sulla questione. Soprattutto perché sembra più interessato alla facilitazione delle esportazioni che ai diritti civili. Non si può dire che non sia al corrente del problema: giorni prima della sua partenza, l’unione dei Sikh residenti nel Regno Unito gli ha inviato una lettera, invitandolo ad opporsi alla pena di morte nel proprio Paese di origine, e ad usare la propria influenza in Europa per far salire l’opposizione anche fra gli altri Stati membri.

 

Gran parte dei 41 Paesi della sponda asiatica del Pacifico hanno rinunciato alla pena di morte: 17 totalmente (non è prevista dalla legge), 10 in pratica e le Isole Fiji la mantengono come punizione estrema per gravi reati militari. L’India si è opposta a tutte le risoluzioni ONU per promuovere una moratoria – nel 2007, 2008, 2010 e 2012. Questo avviene nonostante esistano forti opposizioni alla pena capitale nella società civile.

 

Oltre ad Amnesty e all’ampia campagna promossa dai sikh, esistono eminenti opinioni indipendenti, come quella di Dipankar Gupta, professore di Etica e columnist di Times of India e del New York Times, costretto ad un’argomentazione beccariana per dimostrare l’inutilità della pena di morte.

 

Anche l’Asian Centre for Human Rights è molto attivo e ha pubblicato una settimana fa un report dettagliato e affollato sugli ultimi dieci anni. Sebbene molte sentenze non siano state (ancora) eseguite, o siano diventate ergastoli, comunque vissuti da molti nel braccio della morte, i tribunali indiani condannano alla pena capitale una media di una persona ogni tre giorni.

 

Fra il 2001 e il 2011, si contano 2462 condanne solo nella città di Delhi – che con 13 milioni di abitanti, fa regione a sé.I peggiori sono gli Stati del Nord: Uttar Pradesh (458), Bihar (343), Jharkhand (300). La somma totale, secondo i dati del Ministero degli Affari Interni, è di 1.455.

 

Amnesty International invita chi volesse contribuire a mandare un appello – “in inglese, o nella propria lingua” – ai ministeri indiani, entro il 4 aprile.I contatti sono qui.

21/02/2013
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