Paterson

Lo diremo subito: se cercate un film dalla trama ricca di colpi di scena, dal ritmo serrato, dalla storia classica, forse è meglio se passate oltre. Questo è Jim Jarmusch (“Daunbailò”, “Broken Flowers”, “Ghost dog”) e fa genere a sè.

A Paterson, New Jersey, vive Paterson (Adam Driver), autista di autobus, appassionato di poesia e poeta, fine osservatore della realtà che lo circonda. Vive con la fidanzata Laura e il cane Marvin, ha un vita fatta di gesti e azioni abitudinarie: apre gli occhi poco dopo le 6, senza bisogno di sveglia, va al lavoro, torna a casa e cena con Laura, porta Marvin a fare una passeggiata e si beve una birra, nel solito bar. Nel corso delle giornate, osserva, ascolta, si ferma a riflettere, spesso scrive. Seguiamo la sua esistenza per tutta una settimana, i suoi incontri con gli altri personaggi della storia, quasi sempre altrettanto surreali.

Quello di Jarmusch è cinema anomalo e questa pellicola non fa eccezione: ricca di rimandi interni, metafore, ellissi, dissolvenze, rime, divagazioni assurde, allusioni incomprensibili forse (i gemelli?); solo lui, probabilmente, può permettersi di scrivere dialoghi curiosi su anarchici e poeti italiani, di citare Allen Gingsberg e William Carlos Williams (poeti che a Paterson ci vissero davvero). Apparentemente non succede nulla nella vicenda del protagonista, ma forse lui non sarebbe d’accordo.

Scandito dalle poesie di Paterson, che appaiono nelle scene scritte in sovraimpressione, in inglese. Rischia di apparire indigesto e dal passo lento, se non se ne coglie l’essenza profonda. Sicuramente fuori dagli schemi, a suo modo assomiglia al cinema di Kaurismaki, ha il pregio della leggerezza e il fascino dell’ermetismo. Come spesso accade alle poesie.

22/12/2016
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