Noi siamo infinito

Vale la pena, qualche volta, andare al cinema per concedersi un piccolo film, che ci riconcilia con noi stessi. E’ il caso di “Noi siamo infinito”, pellicola diretta da Stephen Chbosky, che l’ha sceneggiata da un suo romanzo. Nei primi anni ’90, a Pittsburgh, Charlie è un adolescente timido e impacciato, che legge molto e parla poco: comincia, con molte ansie, il primo anno di liceo, sperando di farsi degli amici. Alle spalle una famiglia un po’ distratta, un trauma recente (il suicidio del suo migliore amico) e un ricordo ossessivo: la zia, morta che lui era piccolo, e il loro rapporto speciale.

Charlie, inquieto e sognatore, intelligente e malinconico, si lega ai fratellastri Patrick e Sam, all’ultimo anno di scuola: lui, omosessuale un po’ dandy, un po’ sornione; lei bella e tormentata. I tre, nell’affrontare le gioie e i dolori, nella propria spinta vitalistica e appassionata (la scena conclusiva, che dà il titolo italiano al film, è la metafora della storia) verso la vita, sono il ritratto di una generazione passata, ma non troppo lontana. Con le loro audiocassette e la musica anni ’70 (bellissima la colonna sonora), con le contraddizioni tipiche di chi ha meno di vent’anni ed è spaventato dal futuro, con le frustrazioni e le speranze sentimentali, proprie di quell’età. “Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare” è la bella battuta che dice il professore di letteratura (Paul Rudd, bravo e sotto le righe), al giovane Charlie, che gli chiede dell’amore non corrisposto o, ai nostri occhi, ingiusto.

Ora tenero, ora malinconico, con un’ironia sottile e priva di volgarità (imperdibile l’omaggio a “The Rocky horror picture show”), con un terzetto di giovani interpreti notevole, “Noi siamo infinito” è un film che merita di essere visto. Per il gusto della nostalgia e il fascino senza tempo dell’adolescenza. E pazienza i premi e i tappeti rossi, di stanotte a Hollywood. Anche senza gli Oscar, si può raccontare una storia bella.

24/02/2013
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