Livia De Stefani tra mafia e femminismo

de stefani
 
 
La vigna di uve nere rappresenta l’opera d’esordio di Livia De Stefani. Uscito nel 1953, propone una visione originale dell’argomento mafia, di grande interesse non solo perchè precede l’opera di Sciascia, abitualmente considerato come il primo autore del dopoguerra a occuparsi del fenomeno, ma anche per la lettura “femminista” che l’autrice, con largo anticipo rispetto alla diffusione della letteratura di genere, ne propone. Intervistata da Sandra Petrignani, De Stefani si dimostra consapevole di questo suo primato: “Ho un piccolo vanto: essere stata la prima in Italia a parlare del potere mafioso come di qualcosa che comporta un carattere particolare dell’uomo: violento, chiuso, autoritario e protettivo, con il culto del proprio potere e della sottomissione degli altri (..)”. 
 
la vigna di uve nere
 
 
La vicenda
 
L’opera, ambientata nella Sicilia rurale degli anni ’30, racconta l’epopea familiare di Casemiro  Badalamenti, padre padrone e capomafia della zona di Cinisi. La mafia in questo libro non compare nella sua versione abituale di cancro sociale, ma è piuttosto un’atmosfera che intride di ferocia la famiglia di Casemiro, costituita dalla moglie Concetta, ex prostituta, e dai figli Nicola, Rosaria e Gentilina. La vicenda inizialmente si sofferma sul legame di concubinato instauratosi tra Casemiro e Concetta, all’interno del quale si respira l’odiosa atmosfera della vera e propria prigionia: il rapporto tra i due è quello che intercorre tra serva e padrone. La mafia diventa l’immagine di una cultura retriva e brutale, propria di un certo tipo di tradizione arcaica e contadina, contraddistinta da un’idea di virilità come totale sottomissione della componente femminile, che diventa schiava, serva, “cagna”, come dirà a un certo punto Casemiro a Concetta. Il potere dominatore del maschio si estrinseca nelle sue manifestazioni classiche del sesso e del potere. L’intera sfera emotiva del protagonista è proiettata verso la rincorsa frenetica a questi due obiettivi. All’inizio, prima di incontrare la moglie prostituta, egli è impotente. Potrà realizzare l’unione con una donna solo nel rapporto di amore – servitù impostato con la “statua di carne” Concetta, prona e asservita alla sua dittatura. Una donna astuta, che comprende le difficoltà erotiche del compagno e su di esse fa leva per ottenere la propria emancipazione sociale, attraverso prima il concepimento dei figli e poi l’unione matrimoniale con un uomo potente.
In questo microcosmo di meschinità e sottomissione, l’unico vero slancio d’affetto, frutto di spontaneo trasporto e privo di ogni calcolo su eventuali interessi di natura materiale o egotistica, è quello paradossalmente più osceno: l’amore che sboccia tra Nicola e la dolce sorella Rosaria. Un amore tra due fratelli che si sono conosciuti solo in età adolescenziale e che, a causa della loro scarsa esperienza affettiva, non viene incardinato sui binari del consueto legame parentale. Il sentimento sfocia in incesto. La  ragazza resta incinta e i fatti subiscono un’accelerazione. La scoperta del misfatto da parte del padre culminerà nel suo spietato e delirante requiem: “il maschio è il fiore del sangue, non si coglie. Il maschio è la cima dell’albero, non si spezza. Il maschio non ha grembo, il marciume non si alligna in lui. Nella polpa del frutto, che è femmina, là alligna il marciume. E si fa manifesto, a scorno dell’albero e del coltivatore. Allora, chi ha cura dell’albero, stacca il frutto. Senza timore, senza rimorso, per sacrosanto dovere.”
 
Il libro si conclude con l’estremo gesto di Casemiro nei confronti della figlia. Il pianto che ne consegue non fa altro che esasperare la meschinità e l’orrore del personaggio: indice solo del sollievo per essere riuscito a salvaguardare la rispettabilità e il prestigio del proprio nome dal fango e dallo sfregio della maldicenza.
09/04/2014
Articolo di