La grande bellezza

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“… è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura. Gli sparuti e incostanti sprazzi di bellezza, e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile… ” Così commenta il protagonista del film di Paolo Sorrentino, “La grande bellezza” e così si potrebbe sintetizzare la storia: Jep Gambardella, infatti, è un giornalista di costume e critico teatrale, che ha compiuto 65 anni, elegantissimo e un po’ dandy nei suoi abiti pastello, e che non ha più voglia di perdere tempo. Ha scritto un romanzo di successo, quando era un giovane promettente, e poi non ha pubblicato più nulla. Da allora, a Roma, ha voluto diventare il “re dei mondani”, capace di “far fallire una festa”. E i party nella sua casa, di fronte al Colosseo, sono la cornice abituale delle sue notti: un’umanità stanca, triste, squallida eppure vorticosa nel suo vitalismo feroce e forse ridicolo. Intorno a Jep, una galleria di personaggi grotteschi e fascinosi, di quel fascino da perdente: un cardinale con la passione per la cucina, una dolente spogliarellista quarantenne e suo padre proprietario di un locale di streap-tease, la direttrice nana del giornale di Jep, l’amico venditore di giocattoli e logorroico, la suora santa e centenaria, l’amico drammaturgo mancato e malinconico, l’uomo con le chiavi dei palazzi più belli di Roma… E tutti, e Jep in particolare su tutti, in un circo surreale, che danzano senza sosta e senza meta, corrosi dai dubbi e dalle frustrazioni, non volendosi prendere troppo sul serio, perchè consapevoli delle proprie miserie e dei propri fallimenti. Roma appare bellissima  nascosta, spiata dal protagonista, alla ricerca di quella bellezza perduta, che forse il suo unico romanzo conteneva: Roma all’alba sul Tevere, o la notte deserta, o negli angoli luminosi fotografati dai giapponesi, o nei giardini segreti popolati da suore.

E’ uno stordimento continuo, senza una vera trama, guidati da Jep e dalla sua caustica ironia, ma anche dal suo dolente distacco dallo squallore, della vita intorno a sè e dal ricordo del suo primo amore, oltre quarant’anni fa. Sorrentino spiazza tutti e se la ride, con una storia che inizia citando Celine e, in certi passaggi, evoca caroselli macabri degni di Lynch o dei Coen (ma senza la violenza) o trovate visionarie (che ricordano e parafrasano un po’ Anderson, un po’ Kubrick, un po’ Wilder): lo stormo di gru sul balcone, il medico  taylorista del botulino e la partita a carte delle principesse.

Certo, se siete puristi delle storie, forse rimarrete delusi. Ma non si possono negare i pregi notevoli come la fotografia (Luca Bigazzi), la scelta delle musiche, il montaggio frenetico di alcune sequenze (la prima festa in terrazza di Jep è straordinaria, per potenza evocativa e sincopata, di immagini e suoni) e la direzione degli attori: intorno al solito magnifico Servillo (ormai superfluo spendere elogi per lui), girano Sabrina Ferilli e Carlo Verdone (bravissimi in ruoli drammatici), Roberto Herlitzka e Massimo de Francovich, Massimo Popolizio, Iaia Forte e Claudio Buccirosso.

Sorrentino si dimostra un regista visionario e dotatissimo, capace di reinventare il cinema italiano.

28/05/2013
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