Informazione e trasparenza: elementi per un Foia italiano

 

 

 

 

 

 

Tutto il giornalismo dovrebbe essere preciso. Ma il giornalismo di precisione – conosciuto oggi come data journalism – è un’invenzione con una data di nascita, 1969, e un padre, Philip Meyer, che aveva iniziato nel 1967 con un’inchiesta sulle rivolte dei neri a Detroit. Questo tipo di inchiesta è stata la prima forma di giornalismo investigativo, e consiste nel ricavare storie dall’analisi e dall’incrocio di dati, raccolti dal giornalista o da altri. Dopo decenni passati nel silenzio, il giornalismo investigativo basato sui dati sta rifiorendo, grazie ad un’inziativa del governo americano copiata a ruota in Inghilterra e sparsa timidamente in altri Paesi europei. Con qualche tiepido inizio anche in Italia.

Il Foia (Freedom of Information Act) è stato creato dal governo degli States nel 2009. L’unico Paese europeo dove si utilizza comunemente, e dove ha anche i suoi adepti e i suoi paladini, è l’Inghilterra. Funziona così: scrivendo ad un indirizzo email, si possono richiedere i dati di qualsiasi organizzazione pubblica – scuole, musei, ministeri, ovunque venga investito denaro pubblico. Tramite richieste Foia si possono ottenere investimenti, stipendi (di categorie, non di persone) e talvolta, nascosti nei meandri delle tabelle Excel, qualche regalo inatteso.

I primi reporter ad usare l’informatica come mezzo di investigazione passavano ore a riordinare fogli fisici per collegare un dato ad un altro, e arraffavano tempo macchina ai computer della Nasa nelle ore in cui non erano utilizzati, solitamente di notte. Ora, con il World Wide Web – il cui inventore, Tim Berners-Lee, è stato il primo promotore del Foia britannico – l’intero processo sembra più semplice, e in linea di principio lo è. Ma fare una richiesta Foia è una tecnica che continua a richiedere energie ed expertise. Si deve essere precisi nelle domande, per evitare di aspettare dati per mesi, ma non troppo, per cavare più dati possibili dalla macchina degli archivi. Bisogna formulare la domanda giusta, sapere quanto insistere, assicurarsi di ricevere un formato utilizzabile. E saperlo utilizzare. Perché i computer-assisted reporters non si limitano a leggere i dati, li analizzano per tirare fuori le notizie.

Per questo, esistono organizzazioni che si occupano solamente di assistere nelle richieste. In Inghilterra, c’è Request Initiative, basata a Londra e ad esclusivo servizio del terzo settore. Creata da esperti di libertà di informazione e giornalisti, è nata nel 2011 e da allora aiuta terzi, ma crea anche storie proprie che si occupano di qualsiasi argomento di pubblico interesse. Ogni mese circa 200 storie partite da richieste Foia vengono pubblicate nei giornali inglesi. Il re del settore è il Guardian, che ha una sua équipe interna di data journalists e un settore del giornale dedicato il cui sottotitolo è, significativamente, “Data are sacred” (i dati sono sacri).

In Italia, esiste un piccolo sito di condivisione di alcuni dati, dati.gov.it, che rilascia pubblicamente alcuni file Excel su temi imprevedibili, dal censimento del Comune di Cagliari alle parafarmacie di Firenze. Dati forse informativi in sé, ma difficilmente utilizzabili come vero e proprio strumento investigativo. Per questo, è stata presentata il 29 maggio di quest’anno un’iniziativa che richiede un Foia italiano, promossa fra gli altri dalla Federazione Nazionale della Stampa, il sindacato dei giornalisti. Al momento, non ci sono risposte in questa direzione, e anche l’uso dei dati nel giornalismo italiano è piuttosto limitato – e di solito vengono semplicemente pubblicati e commentati, non utilizzati per ricavarne delle notizie. Sembra, quindi, che al di là delle iniziative manchino i presupposti: l’abitudine al giornalismo investigativo, e ad un governo trasparente. Entrambi buone prassi, dati a parte.

09/11/2012
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