Il prigioniero coreano

Un pescatore, che ogni giorno esce sul fiume per procurare cibo per sè, sua moglie e la sua bambina, si ritrova con il motore in avaria, per la rete da pesca impigliata. La barca viene trascinata oltre il confine, poche decine di metri oltre, tra Corea del Nord e del Sud. Le autorità di Seul lo arrestano e lo interrogano, sospettandolo di essere una spia del regime comunista. L’uomo trova la solidarietà di una giovane guardia, ma anche la feroce ostilità di uno degli agenti della sicurezza. Per convincerlo a parlare ogni mezzo sarà lecito: la tortura intellettuale e fisica, ma anche le lusinghe della democrazia, per provare a farlo disertare. L’uomo, tuttavia, desidera solo tornare a casa, dai suoi cari, anche se sa che sarà controinterrogato dalla sicurezza nordcoreana, per capire cosa ha detto e fatto. Siamo davvero sicuri che il confine del 38° parallelo, che separa la penisola coreana dal 1953, separi anche la democrazia occidentale dalla dittatura comunista?

Incubo kafkiano in cui si ritrova un uomo qualunque, nonostante qualche rigidità didascalica di fondo, arriva al segno: la descrizione di due regimi contrapposti, che lottano da decenni per esaltare la loro sostanziale differenza, che si ritrovano simili nell’ossessione paranoica del controllo, nell’uso sistematico del sospetto, nel culto idolatrico dei propri valori, nell’omologazione coatta degli esseri umani. La guardia e il pescatore, a tratti, si ritrovano simili, esseri umani senza differenze.

Apologo ferocissimo e amaro di Kim Ki-Duk, regista pluripremiato a Venezia e a Cannes.

14/04/2018
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