Il legame tra scuola e territorio – Carlo Mustaro

Oggi pubblichiamo la prima puntata degli “Appunti della Scuola di Quartiere“.

Queste riflessioni escono dalla penna di Carlo Mustaro, animatore sociale dell’associazione Acmos. Ha maturato la sua sensibilità grazie all’esperienza nelle attività educative, nelle coabitazioni giovanili solidali, per l’impegno e i lavori legati ai diritti dei detenuti, frutto dei suoi studi in giurisprudenza.

Ci propone, con questa sua introduzione, una riflessione che, attraverso alcuni storici riferimenti pedagogici, argomenta e sottolinea il valore e la stretta connessione tra la comunità, il territorio, e la scuola di oggi.

Educare attraverso la Comunità

 Una cosa va detta: se l’educazione (come la democrazia – M. Baldacci, Democrazia ed educazione: una prospettiva per i nostri tempi, p. 24) ha il fine di permettere a ciascuno di sviluppare a pieno la propria personalità, allora il perdurare di una realtà sociale che impedisce agli uomini di essere autenticamente liberi finisce per negare la vocazione ontologia della pratica educativa.

Che fare, quindi? Come superare la disumanizzazione che caratterizza il nostro sistema socio – economico? Come costruire processi di democratizzazione che, passando per la scuola, informino la società intera?

Intanto, credo sia essenziale attivare processi educativi che permettano alle persone di riscoprire “l’intenzionalità” come “caratteristica essenziale dello spirito umano” (V. Korac). Di riscoprire se stessi come soggetti in grado di trasformare il mondo, di modificare le proprie creazioni per metterle al servizio degli uomini.

È necessario, in altre parole, rimettere al centro le persone, perché prendano coscienza del proprio compito storico: “ser – mais”, attraverso percorsi di liberazione degli uomini – oppressi (P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele).

La pratica pedagogica di cui stiamo parlando “comporta necessariamente la presa di coscienza e l’atto di volontà, che poi si prolungano e si inseriscono con continuità nella storia” (Fiori citato in nota 7, p. 37 de P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele).  Solo così, infatti, è possibile recuperare il carattere processuale e relazionale dell’educazione, rendendolo sotto la forma di una “‘co-intenzionalità’”:

 

Educatore ed educandi (leader e masse), nella “co-intenzionalità” di fronte a ciò che è reale, si ritrovano in un compito in cui ambedue sono soggetti; essi lo rivelano e lo conoscono criticamente, ma soprattutto lo ricreano.

Quando giungono, nell’azione e nella riflessione comuni, a legare questo sapere alla realtà, se ne scoprono ri-creatori permanenti. In questo modo la presenza degli oppressi nella ricerca della loro liberazione, più che una pseudo-partecipazione, arriva a essere ciò che deve realmente essere: un impegno” verso l’umanizzazione (P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, p. 56).

 

Insomma, all’educazione depositaria dobbiamo contrappore un’educazione problematizzante, dialogica (P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele), che è “probabilità rivoluzionaria di futuro”.

Che è “profetica e per questo capace di speranza”.

Queste qualità della pedagogia di matrice freiriana “risultano dal carattere utopico di tale forma di azione, intendendosi per utopia l’unità indissolubile della denuncia con l’annuncio. Denuncia di una realtà disumanizzante e annuncio di una realtà in cui gli uomini possano “essere di più”. Annuncio e denuncia non sono però parole vuote, ma impegno storico” (P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, p. 74).

Ma come rendere prassi quanto abbiamo finora detto? Attraverso la costruzione di Comunità: “non si può più affermare che qualcuno libera qualcuno, o che qualcuno si libera da solo, ma che gli uomini si liberano in comunione” (P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele).

È proprio la comunità, infatti, “che consente l’elaborazione e la trasmissione di cultura (sapere + valori) vitale per la persona. È attraverso la comunità (…) che avviene primariamente ogni forma efficace di inculturazione e acculturazione e quindi di scoperta del vero” (G. Dalle Fratte, Studio per una teoria pedagogica della comunità, Armando, Roma, 1991, p. 34).

È attraverso esperienze di comunità che è possibile immergersi criticamente nella realtà per comprenderla, così da acquisire coscienza di sé (nel mondo) e del proprio ruolo (potere) di cambiamento.

Non solo: la comunità è l’unico luogo all’interno del quale il processo pedagogico di coscientizzazione può trovare concreta realizzazione. L’educazione dialogica, infatti, richiede, come suo presupposto, lo “stare con” gli altri, e produce, come sua conseguenza, la consapevolezza che se l’oppressione è collettiva, allora anche l’azione liberatrice dovrà esserlo. In una parola, permette la genesi di quella che un tempo veniva chiamata coscienza di classe.

 

Le parti di una macchina lavorano con un massimo di cooperazione, per un risultato comune, eppure non formano una comunità. Però se fossero tutte consce di questo fine comune e vi fossero tutte interessate in modo da regolare la loro attività specifica verso di esso, allora formerebbero una comunità” (J. Dewey, 1979)

 

In definitiva, la comunità (che viaggia in coppia con la democrazia) finisce per essere sia mezzo che fine, perché rappresenta il solo strumento (politico perché collettivo) di permanente ri – creazione della realtà sociale. È, in altre parole, la sola sede in cui gli uomini possono autenticamente “essere di più”. 

Una proposta di scuola umanista: la Scuola di Quartiere

 Il passo successivo è intuibile: bisogna che la scuola diventi la Comunità di cui abbiamo fin qui delineato le caratteristiche.

Abbiamo già descritto alcuni dei problemi che affliggono l’istituzione scolastica, ma credo sia necessario sottolinearne ancora un aspetto: il completo scollamento tra la didattica ed il mondo.

Ne facciamo esperienza ogni giorno: studenti e studentesse che ci confessano come nelle aule scolastiche non trovino lo spazio per ragionare sulla società in cui vivono e sulle sue criticità (per non parlare dell’inibizione della loro creatività).

Poco importa, allora, se molti ragazzi lasciano la scuola, tanto i contesti socio – economici nei quali essi vivono li avevano già destinati al ‘fallimento’.

In buona sostanza, la scuola finisce per diventare un ingranaggio della macchina di marginalizzazione che opera attraverso istituzioni sociali, piani urbanistici, paradigmi culturali, e che determina l’inserimento in sistemi di controllo (tra i quali spiccano i processi di criminalizzazione e quelli socio – assistenziali) che definitivamente appongono lo stigma deviante su questi ragazzi.

Il racconto dei media, poi, alimenta l’individualismo all’interno di questa stessa classe di soggetti (un tempo li avremmo chiamati subalterni), perché artificiosamente (e funzionalmente) divide in categorie contrapposte per nazionalità, impieghi ecc.

In questo quadro, il compito dell’educazione comunitaria diventa quello di restituire la parola agli esclusi, facendo emergere, a partire dalla valorizzazione delle loro capacità, le loro istanze. È solo nella comunanza di interessi e visioni, infatti, che essi potranno riconoscersi come ‘comunità di destino’.

 

Don Lorenzo Milani non ha mai pensato che il figlio del contadino fosse più ignorante del figlio del farmacista o del dottore. Al contrario lui osservava che il figlio del contadino è portatore di una cultura diversa da quella del figlio del farmacista, ma non inferiore. Non è semplicemente qualcuno che deve essere aiutato; è qualcuno che può aiutare gli altri. Questa cultura diversa ha un unico limite: privata della parola, immersa nella timidezza, non trova espressione” (P. Bussagli, prefazione a Don Lorenzo Milani, La parola fa eguali, a cura di Michele Gesualdi, Libreria Editrice Fiorentina, pp. 3 e 4)

 

Attorno alla parola ruota l’intera costruzione di comunità. Intorno all’uso della parola gravitano i processi di trasformazione della realtà [“Il dialogo, come incontro di uomini per la denominazione del mondo, è una condizione fondamentale per la sua reale umanizzazione” (P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, p. 134)] e di costruzione di ponti di solidarietà. Obiettivo nell’obiettivo, infatti, è che a quella ‘comunità di destino’ partecipino anche gli studenti non marginalizzati: i punti di partenza sono sicuramente diversi, ma l’oppressione è comune.

Il luogo in cui questa ‘comunione’ può concretamente realizzarsi è la scuola. Una scuola, però, che non abbia paura di mettersi in discussione e di aprirsi al territorio, al fine di ri – accogliere i ragazzi e le ragazze che aveva lasciato indietro.

A tal fine, l’istituzione scolastica deve diventare sede di promozione della più ampia partecipazione: si tratta di avviare un processo di concreta democratizzazione della società (N. Bobbio, Il futuro della democrazia), il quale deve investire tutte le istituzioni sociali, scuola in primis.

Tale processo, inoltre, non potrà essere relegato alla sola organizzazione interna del sistema scolastico, ma dovrà coinvolgere tutti i soggetti che gravitano attorno a quest’ultimo, ai quali esso deve fornire coordinamento.

In altre parole, la scuola deve garantire il coinvolgimento di tutti gli attori sociali che operano nel territorio in cui essa è inserita (associazioni, comitati, collettivi, gruppi di genitori, scuole limitrofe, persone singole ecc…).

Non solo: essa deve organizzare tale partecipazione, promuovendo tavoli di coordinamento tra le realtà elencate, così da realizzare un vero e proprio sistema integrato tra scolastico ed extra – scolastico (anche per quanto attiene allo svolgimento dei P.O.F.).

Una Scuola di Prossimità.
Una Scuola di Quartiere.

 

“(…) e soprattutto perché crediamo che, più che con programmi cartacei, un determinato orientamento ideale nella scuola lo si raggiunga con una larga azione sociale, con una scuola legata alla società e con una società in movimento” (M. A. Manacorda, L’identificazione di contenuto e metodo si attua solo nella pratica. Riforma della scuola, anno VIII(6-7), 46 – 50).

 

Facciamo nostro il monito di Manacorda, convinti che solo attraverso una ‘Scuola di Quartiere’ sarà possibile riavvicinare didattica e mondo.

Solo attraverso una ‘Scuola di Quartiere’ sarà possibile costruire, finalmente, quella ‘comunità di destino’ che è presupposto perché tutti gli uomini possano liberarsi e liberare ciascuno dal bisogno.

23/10/2021
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