Happy End

A Calais vive la famiglia Laurent, il cui vecchio patriarca Georges (J. L. Trintignat) è sempre più debilitato dagli acciacchi del corpo, stanco di fare fatica nella quotidianità. Ha due figli: Anne (I. Huppert) che cerca di mandare avanti una delle aziende di famiglia, affidata al proprio figlio Pierre, che però non si rivela capace di adempiere alla responsabilità; Thomas (M. Kassovitz), che ha una giovane compagna da cui ha appena avuto un bambino, ma anche un ex moglie e una figlia tredicenne di nome Eve, che va a vivere con il padre, dopo che la madre è stata ricoverata in ospedale. E’ spesso attraverso il suo sguardo, di giovane adolescente che osserva la famiglia dove è stata accolta, che la storia procede nella narrazione. E più Eve (e Haneke, e noi spettatori di conseguenza) osserviamo, più emergono le contraddizioni, le ambiguità, le meschinità, la vigliaccheria, la frustrazione, la  bassezza umana di molti personaggi. L’alta borghesia benestante non è al riparo dai vizi. Intorno, la società quasi non esiste, nonostante bussi alle porte in maniera incipiente: i migranti nella Calais odierna sono la fotografia dell’attualità e allo stesso tempo la metafora dei nostri tempi, di quello che il benessere apparente non ci fa percepire. Film sospeso, fin dal titolo, che fa una satira al vetriolo di una classe sociale.

Michael Haneke, con il consueto sguardo implacabile e il ritmo misurato, scrive e dirige l’ennesima storia ferocissima: qui non c’è violenza fisica, ma non per questo è meno inquietante. Un terzetto di interpreti ammirevole, in cui spicca la performance dell’ottantasettenne Trintignant. Haneke diventa sempre più pessimista: poca musica, molte inquadrature fisse, la finzione su cui indugia è vicina alla realtà, e forse ne è copia fedele, in maniera inquietante.

02/12/2017
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