Fury

Nella Germania quasi alla resa (aprile 1945), quattro americani in divisa e su un carro armato ribattezzato “Fury”, avanzano nelle linee nemiche con l‘obiettivo di eliminare il maggior numero di tedeschi, soprattutto SS. Hanno appena perso il quinto componente del gruppo, così viene loro affidato il giovane Norman, ventenne dattilografo che non ha quasi mai sparato nelle otto settimane in cui ha prestato servizio sotto le armi. Il leader carismatico, spietato e coraggioso, equilibrato e granitico, è il sergente Don Collier, padre e fratello maggiore dei suoi uomini, impersonato da Brad Pitt.

L’iniziazione alla guerra e alla violenza del giovane Norman non sarà per nulla facile, né indolore. Ma non c’è alternativa, né scampo in guerra, sembra dirci David Ayer, sceneggiatore e regista di questo film di guerra sui generis, perché “gli ideali sono pacifici, la storia è violenta”. Girato per lo più a bordo del carro armato (ma meno claustrofobico di “Lebanon”, cui è inevitabile pensare), con poche divagazioni in momenti di pausa dal conflitto (la lunga parentesi nella casa delle due donne tedesche), truculento in certi passaggi di carneficina splatter, il film riesce a rappresentare con efficacia la guerra sporca (e non solo per il fango in cui tutti sembrano affondare), aggirando quasi sempre il rischio della retorica patriottica, con i protagonisti che cercano di salvare la pelle e ammazzare più nemici possibile, senza etica né carità, che in guerra non ci si può permettere di averle. Più vicino a Sam Peckinpah (anche se meno talentuoso), che a Spielberg o Malick, tanto che non si può rileggere nel finale un omaggio esplicito alla conclusione de “Il mucchio selvaggio”, anche se con meno romanticismo elegiaco.

Qualche eccesso di spettacolarizzazione nei combattimenti (la logica pop alla “Star Wars” contagia gli effetti speciali), interessante sul piano delle domande esistenziali, fin religiose, che i 5 si fanno in continuazione. Senza catarsi, redenzione, riscatto, epica.

E’ la guerra, bellezza!

03/06/2015
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