"Django unchained"

 

 

 

Chi pensava che Quentin Tarantino, l’enfant prodige del cinema dei primi anni ’90 e ora quotato maestro di un genere tutto suo, avesse esagerato con “Bastardi senza gloria”, dovrà ricredersi.La sua ultima pellicola, “Django unchained”, è ispirata alla lontana e liberamente rivisitata dallo spaghetti-western “Django” di Sergio Corbucci, del 1966, protagonista Franco Nero (che qui appare in una breve e simpatica scena, dialogando con il protagonista). Ed è fuori da ogni regola. Ma se il protagonista del film italiano era un misterioso cowboy che trascinava una mitragliatrice, dentro una cassa da morto, il Django qui è uno schiavo nero e liberato (J. Foxx), dall’eccentrico e simpaticissimo dott. Schultz (C. Waltz), ex dentista e ora cacciatore di taglie in giro per gli Stati Uniti, pre guerra di Secessione. Insieme formeranno una strana coppia, a caccia di criminali da uccidere per incassare la ricompensa sulla loro morte. Django, però, vuole ritrovare l’amata moglie, schiava nella tenuta di Candyland, proprietà di Mr. Calvin Candie (un luciferino Leonardo Di Caprio). Sulla strada dei due protagonisti, si verserà una lunga scia di sangue, lungo un paesaggio freddo e spesso nevoso (fotografia stupenda del veterano R. Richardson).

Più vicino al fumetto o alla storia di un supereroe vendicativo, il Django in salsa tarantiniana è un concentrato di iper-violenza, anche piuttosto truculenta, un film dal ritmo sostenuto che tiene per più di 2 ore 40 minuti (anche se perde un po’ di brio nella seconda parte e si dilata troppo alla fine). Tarantino ormai è alla parodia del cinema, al melting pot dei generi (le musiche affidate a Bacalov e Morricone, ricalcano melodie tanto famigliari all’orecchio degli spettatori), al frullato di citazioni (Kubrick, “Taxi Driver” e tanti omaggi a Sergio Leone) e di echi nostalgici (alcune scene ricordano, in chiave pulp e grottesca, capolavori del cinema western come “Gli spietati” e “Il mucchio selvaggio”), con molta ironia e grande senso dell’intrattenimento. Memorabile la sequenza iniziale, in cui Schultz contratta l’acquisto dello schiavo Django; si fanno ricordare anche il dialogo non-sense degli incappucciati e poco scaltri razzisti, capitanati da Big Daddy (Don Johnson), la scena nel saloon prima di uccidere lo sceriffo, il finale esplosivo, sulle note del tema musicale de “Lo chiamavano Trinità”.

 

Bravi gli interpreti, va menzionato almeno ancora S. L. Jackson, perfido uomo di colore al servizio di Mr. Candie. Su tutti, l’irresistibile performance di Waltz, di nuovo nei panni di un personaggio incredibile, di nuovo in odore di Oscar, per un film di Tarantino.

Si è fatto un gran dire, anche e soprattutto negativamente parlando, sulla rappresentazione dello schiavismo, che il film dipinge. Non entriamo nemmeno nel merito. Tarantino è puro intrattenimento oramai. Non chiedetegli una lezione di storia, nè pretendete che si prenda sul serio. Non sarebbe più lui.

Preferiamo tenercelo stretto, nella sua follia tutta particolare, così com’è.

29/01/2013
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