Kurt Cobain, i Nirvana e quel che ne resta 20 anni dopo

Articolo di Salvatore Renna

 

Quando l’elettricista Gary Smith arrivò a casa Cobain la mattina del venerdì 8 aprile 1994 per installare un sistema di sicurezza, difficilmente si sarebbe immaginato quello che trovò. Dopo aver visto che nella serra c’era un corpo con del sangue al suo fianco, chiamò la polizia e un suo amico, il quale a sua volta chiamò la stazione radio KXRX di Seattle, aggiungendo con la notizia: “Per una cosa del genere mi dovete regalare i biglietti buoni per i Pink Floyd”. Così, insieme alla richiesta di due biglietti omaggio, il mondo veniva a sapere che Kurt Donald Cobain era morto.

 

Storia strana, quella di Kurt e dei Nirvana. Strana perché arrivarono all’apice del successo in soli due anni e con pochi album. Bleach, primo album del 1989, era stato apprezzato nell’ancora ristretta cerchia del grunge, mentre solo con Nevermind del 1991 raggiunsero un successo di pubblico del tutto inaspettato. Dopo quell’album, vi fu soltanto un altro album di inediti, In Utero del 1993 (tralasciando la raccolta di b-side Insecticide, datata 1992) e il tempo per un Unplugged in New York, nel novembre 1993. Eppure Nevermind da solo era bastato a portarli tra le divinità del rock, a fianco dei Guns’n’Roses che erano in giro da più tempo e insieme ai Pearl Jam, che seppero mostrare ai Nirvana cosa volesse dire esordire con un capolavoro (Ten, del 1990). Pochi album dunque, ma gli album giusti, costruiti nel modo giusto. Su questa strana e breve storia, che li fece arrivare sul monte più alto della musica rock e cadere in appena cinque anni, si è detto e continua a dire molto: che i Nirvana senza Cobain non erano nulla (sterile questione), che non sapevano suonare (loro stessi non si presentarono mai come virtuosi dello strumento), che abbiano diffuso il grunge tradendone lo spirito (sterile questione numero due), che Cobain sia stato ucciso (strano mondo quello del rock, dove se hai la fortuna di rimanere vivo come Paul McCartney vieni accusato di essere il sosia di un morto) e che il suo ultimo messaggio al mondo sia stato un inno all’empatia (leggete i testi di qualche canzone e capirete come il ragazzo sia stato piuttosto incazzato fino alla fine). E se ne continuerà a dire e scrivere molto, la maggior parte della volte senza aggiungere nulla di nuovo.

 

Per molti però, anche nati dopo quegli anni come me (che quando uscì Nevermind non avevo ancora visto la luce e che quando morì Kurt stavo probabilmente mangiando cioccolata all’asilo), i Nirvana hanno sicuramente rappresentato molto. Soprattutto se scoperti intorno ai quattordici anni, un età in cui si è spesso incazzati senza saperne il motivo, i riff distorti, le mitragliate di batteria sotto un basso ossessivo e la voce di Cobain sembrarono comprendere bene questa rabbia. Ma non c’era solo l’espressione di una rabbia tardo adolescenziale, perché tutti quelli che iniziarono ad amarli per questo impararono col tempo ad apprezzarli per tanto altro: per la sincerità di alcuni testi come Dumb, per la poesia e la crudità di altri come Heart-Shaped Box, per l’ironia (tragica, per noi) di I hate myself and I want to die, per il romanticismo (perché erano anche romantici, si) di About a girl e per l’essere semplicemente i Nirvana, con tutto quello che questo voleva dire e che la postuma You know you’re right riassume bene. Le dinamiche lento/distorto tipicamente nirvaniane riuscivano a racchiudere in tre minuti l’altalenarsi di speranza e angoscia che tutti conoscono, e quelli che provarono a suonare il riff di Smells like Teen Spirit si sentirono catapultati nel mondo delle rockstar in poco più di quattro minuti. Divennero e sono la colonna sonora di migliaia di giovani e non più giovani, e, come ogni colonna sonora che si rispetti, furono in grado di scrivere canzoni buone per ogni tipo di giorno. C’era nei loro pezzi una semplicità non solo musicale, una schiettezza che derivava dalle debolezze mai nascoste e che li fece percepire sempre come molto più vicini delle lontane, leggendarie e famose rockstar che erano. E per alcuni, i più fortunati forse, è ancora cosi: riescono ad ascoltare quei pochi ma tanto amati album ancora in questo modo adolescenziale, che è forse il miglior modo per ascoltare qualsiasi disco. Ebbero certamente i loro limiti, non furono pochi e non li nascosero: ma gli anniversari son fatti per tacere sui limiti e concentrarsi sul resto.

Ecco, credo di essere tra questi fortunati irriducibili. Son cresciuto con l’eterno rimpianto di non poterli mai vedere dal vivo. Però a volte, solo a volte, succede qualcosa che ha dell’incredibile. Se mi concentro mentre sento un loro pezzo, riesco davvero a percepire ciò che c’è dietro la registrazione: tre persone che suonano ed una che canta, mentre sono tutte vive, vivissime. Mi concentro talmente tanto che mi sembra di essere seduto nello studio mentre suonano, vivi e vegeti davanti a me. Provate a concentrarvi, con qualunque gruppo voi amiate. Io oggi, visto che è il ventennale della morte di uno di quei tre, ci riprovo con loro. Speriamo che accada.  

http://www.youtube.com/watch?v=qv96yJYhk3M

05/04/2014
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