Zapatos

Quando mi chiedono “Ma com’è questa Colombia?” non so mai come rispondere, ci sono troppe “colombie” e colombiani per poterli definire e riassumere.

 

Nel paese, infatti, sono presenti almeno tre grandi gruppi etnici: i meticci, gli indigeni e gli afrocolombiani. 

 

I primi risultato della colonizzazione, di sangue europeo mischiato a sangue latino, di cui fa parte la maggioranza della popolazione, i secondi, sono coloro che sono stati riconosciuti come indigeni o si sono riconosciuti come tali, negli ultimi anni infatti, sono moltissimi i cittadini colombiani che hanno lavorato per ricostruire le radici che gli spagnoli hanno cercato di distruggere. I terzi, nipoti di quella infame schiavitù utile ai colonizzatori.

 

C’è un quarto gruppo, non riconosciuto costituzionalmente, di cui però fanno parte moltissimi colombiani: quello dei contadini. I contadini non sono distinguibili per il colore della pelle ma sicuramente per le millenarie tradizioni che li legano alla terra che abitano, che coltivano. Molte delle persone con cui ho la fortuna di lavorare, si presentano come contadine, con orgoglio.

 

Se dovessi dipingere un quadro della quotidianità della Colombia che vivo, sceglierei la frazione di Gualmatan, a 20 minuti di bus da Pasto, il capoluogo del Nariño, dove sto di casa da quasi due anni.

 

Gualmatan è un piccolo centro abitato, da cui si vede tutta la città di Pasto e, insieme a lei, offre anche una vista privilegiata sul Vulcano Galeras, che minaccia e vigila i suoi abitanti.  Per arrivare, prendo il pullman urbano C4, che attraversa il centro della città, per poi perdersi tra le campagne.

 

Riconosci di essere vicino a Gualmatan, per il fortissimo odore di mattoni che emanano le piccole case in cui si costruiscono, un odore che non avevo mai sentito prima. L’umanità è divisa in due, come per l’odore della benzina, c’è a chi piace, c’è chi non lo sopporta. Chi costruisce i mattoni tutto il giorno respira i fumi dei forni, usando solo una maglietta per coprirsi la bocca.

 

Superate le casette “dei mattoni”, iniziano i campi di cavolfiori, di patate e di cipolla, per il clima rigido infatti, non c’è una varietà ampia di prodotti come in altre zone. La maggioranza della popolazione è contadina e, sfruttando la vicinanza con la città, vende giornalmente i frutti dei propri campi ai mercati di Pasto.

 

Ho avuto la possibilità di lavorare almeno una volta ogni due settimane in questa cornice, sentendomi poco a poco a casa, per le sue stradine sterrate, temendo i cani che si affacciano minacciosi da tetti e porte, comprando dei fogli di carta per fare i laboratori, salutando i suoi abitanti e cucinando nella cucina della mia collega, che li vive.

 

L’equipe di lavoro della “Associazione per lo sviluppo contadino”, è composta infatti anche da contadini, che svolgono il ruolo fondamentale di conoscere le zone da cui arrivano e di portare le loro conoscenze nelle altre comunità. Una di queste è Ximena, una ragazza di 27 anni, che in Gualmatan vive con la madre, Doña Rocio, un metro e cinquanta di pura energia.

 

Insieme, fanno sforzi enormi per comunità, animando una associazione di contadini che li è stata costituita da una ventina di anni. La maggior parte dei laboratori che si fanno, con adulti e bambini, si svolge nella sala di casa loro, che puntualmente si riempie di sedie, di fango, di caffè rovesciato, di urla di bambini felici di essere li.

 

In questa comunità ho trovato una casa, dove parlo del più e del meno, tagliando una cipolla dell’orto per far provare la carbonara ai bambini, dove mi dimentico del freddo correndo dietro un pallone in un match organizzato tra le case, dove mi faccio prendere in giro per il mio accento strano e i miei pantaloni larghi.

 

Non so come sia la Colombia, ma cerco di capire come sono alcuni dei suoi spicchi più remoti, nascosti tra le Ande, in un verde difficile da descrivere.

 

Il mio lavoro, in questi ormai quasi due anni, è stato quello di insegnare ai 15 bambini che fanno parte del gruppo di giovani dell’associazione, a fare le fotografie, fare dei video, scrivere degli articoli, comunicare la bellezza del proprio territorio e dei propri valori. Mi emoziona vederli chiedermi ogni cinque minuti se gli impresto la macchina fotografica, agitarsi e prepararsi per un’intervista, colorare i disegni, vederli correre liberi tra le case.

 

Per loro, non sono più una buffa italiana, ma una presenza che li accompagna e li sprona a tirare fuori il coraggio di raccontarsi e raccontare i progetti che li vedono protagonisti. E quando mi chiedono che ci faccio ancora qui, è questa una delle risposte, sono questi piccoli colombiani e l’entusiasmo che li contraddistingue.

 

Torno sempre a casa stanca e sorridente, con le scarpe piene di terra e la voglia di continuare a percorrere queste strade.

02/05/2017
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