Qualche idea concreta sulla crescita (quella vera).

Pubblichiamo il secondo articolo del professor Riccardo Calcagno, che questa volta ci parla di crescita, ovvero quella materia oscura di cui tanti si riempiono la bocca senza entrare troppo nel merito. A noi invece il merito piace!

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Cosa possono fare i governi per incentivare la crescita economica? Qualche spunto di riflessione

Dopo un anno di politiche fiscali restrittive e di rigore sul budgat ci si è finalmente resi conto che insieme all’elevatissimo debito pubblico, il più grande problema italiano é la crescita economica. In effetti dal 1990 al 2010 la crescita in Italia è stata più bassa che negli altri paesi sviluppati OCSE di quasi 3 punti percentuali all’anno in media,[1] una differenza enorme se distribuita su un periodo così lungo. Anche il buon senso ormai suggerisce che non c’è soluzione possibile al problema del debito senza stimolare la crescita. Visti gli effetti sociali durissimi delle politiche di rientro del debito attuate dal governo Monti, e osservando cosa è successo in Grecia dove sono state implementate misure ancora più dure, su questo punto sembrano ormai tutti d’accordo: destra, sinistra e centro, industriali e sindacati, giovani e anziani. Quando tutti sono d’accordo su un argomento io personalmente inizio ad insospettirmi ed a pensare che nessuno lo prende veramente sul serio. Generare crescita è (uno dei) mantra dei politici in questa campagna elettorale, ma non mi sembra ci siano grandi idee in circolazione su come farlo, se non ricette già sentite e di dubbia efficacia.

Devo fare due brevi premesse. Primo, la crescita economica non si genera per decreto legge. Secondo, molti economisti criticano da tempo il fatto che si misuri la crescita economica con la semplice misurazione del PIL; ma in fondo questa è la misura che viene usata internazionalmente  dalla stragrande maggioranza di istituzioni e investitori, e quindi non parlerò qui di queste critiche, per quanto pertinenti esse possano essere.

Voglio piuttosto passare velocemente in rassegna qualche idea che è stata proposta per stimolare la crescita economica.

Recentemente, molti governi, tra cui anche il governo Monti, hanno proposto vari incentivi alla creazione di imprese, scommettendo sulla nuova imprenditoria per creare occupazione e crescita. L’amministrazione Obama nel 2012 e il governo socialista francese in particolare hanno puntato molto su questa idea. Per evitare i difetti tipici di incentivi pubblici – che finiscono spesso per dare soldi a imprese economicamente non sane e che quindi nel giro di pochi anni distruggono invece di creare occupazione – questa via può essere benefica solo se seleziona propriamente i nuovi imprenditori, e fornisce forme di finanziamento appropriato solo a quelli che creano veramente innovazione. Negli Stati Uniti è molto sviluppato il settore del “Venture Capitalism”, dove investitori privati specializzati selezionano quali start-up finanziare e le accompagnano nella loro crescita. Visto che gli investitori privati in Europa non sembrano apprezzare troppo questo settore in rapporto agli americani, i governi potrebbero potenziare delle iniziative pubblico-private, sotto forma di banche specializzate al finanziamento di start-up. Ma non credo che l’offerta di credito sia l’unico problema alla creazione di imprese innovative. I sistemi legislativi dovrebbero soprattutto incentivare le parti a creare contratti opportuni alla creazione di innovazione. Per esempio, come proposto da alcuni studiosi di finanza comportamentale,[2] bisognerebbe introdurre contratti che riducano i costi di fallimento per i nuovi imprenditori che investono in settori molto innovativi. Più in generale, ho l’impressione che non sia tanto necessario investire soldi pubblici o dare incentivi, quanto cambiare la normativa per agevolare chi voglia investire o creare forme di impresa nuova e rischiosa.

Una seconda proposta. L’Italia è povera ma gli italiani sono relativamente ricchi in media e la loro ricchezza è abbastanza distribuita: il patrimonio medio di una famiglia italiana è pari a circa 6 volte il proprio reddito, 5 volte al netto del debito dello Stato, e circa ¾ delle famiglie italiane possiede una abitazione. Il rapporto tra ricchezza netta e reddito disponibile nel 2010 in media per una famiglia italiana era più alto che in Giappone e negli Stati Uniti, e quasi al livello delle famiglie britanniche e francesi, le più ricche in questa speciale classifica. Da qui l’idea di permettere almeno un parziale smobilizzo di questa ingente ricchezza immobiliare. Come? Su questo si può lasciare spazio a un po’ di fantasia, ma cito due idee. Primo, permettere forme di proprietà “condivisa”, in cui il proprietario vende una piccola percentuale della sua abitazione (diciamo il 5% come esempio), continua a usufruirne il possesso ed in cambio a pagarne le spese. Il giorno in cui il proprietario principale trasferisce la sua proprietà, il possessore del 5% restante incassa il 5% del valore della transazione. In questo modo si fornisce liquidità alle famiglie proprietarie di abitazioni ma con redditi spesso bassi. Un’altra possibilità sono contratti di “reverse mortgage” per gli anziani proprietari di case. Una banca acquisisce la proprietà in cambio di un vitalizio in favore del proprietario, il quale nel frattempo mantiene l’usufrutto dell’abitazione. L’anziano ha così modo di integrare la sempre più misera pensione, ma non è costretto a trasferirsi dalla sua abitazione a cui è probabilmente molto legato. Alla morte del proprietario, questa passa in proprietà alla banca. Sostenere i consumi di famiglie proprietarie a reddito basso e anziani con povere pensioni, i due gruppi che più probabilmente farebbero maggiore uso di questi contratti, incentiva la domanda interna e di qui la crescita. Ovviamente i “reverse mortgages” dovrebbero essere attentamente osservati e regolamentati per evitare abusi da parte delle istituzioni finanziarie.

Secondo “The Economist”,[3] i mercati del futuro saranno occupati sempre di più dalle classi medie cinese e indiana che si stanno formando in questo decennio di grande espansione economica nei rispettivi paesi. Questi nuovi consumatori rappresenteranno una quota preponderante della domanda mondiale, ma non solo: essi si ispirano già da parecchio tempo ai modelli di consumo occidentali. L’Italia ha un posizionamento di mercato forte nel settore del lusso, e dovrebbe utilizzare questo vantaggio per sfondare anche su mercati più ampi e meno esclusivi. Ricreare attenzione verso il made in Italy, venderlo in modo appropriato dal punto di vista istituzionale a questi nuovi consumatori, ampliare gli scambi anche culturali (perché non creare progetti “Erasmus” con la Cina e l’India per esempio? Gli studenti che visitano un paese imparano ad apprezzarlo e diventano così i migliori clienti del futuro), sono tutti compiti di un governo più che dei singoli imprenditori. Presidenti del Consiglio che organizzano bunga-bunga non sono certo un buon veicolo di marketing all’estero.

Nei prossimi anni i governi in tutti i paesi europei si troveranno a gestire forme di disintermediazione finanziaria. Secondo molti esperti, con l’introduzione delle nuove forme di regolamentazione, le banche del futuro saranno più snelle e prenderanno meno rischi limitandosi al credito verso attività tradizionali. Per garantire credito a forme di impresa nuove, ci vorranno dunque nuove forme di intermediazione, e nuovi contratti di credito. Gestire bene questa fase di transizione e supportare quelli che saranno i nuovi creditori (assicurazioni, fondi pensione, credito tra pari) sarà cruciale per i nuovi governi. Ma questo argomento merita una discussione a sé stante che tratterò in futuro.

Gli esempi che ho citato secondo me non sono di per sé politiche di destra o di sinistra, anche se bisogna stare attenti al modo in cui verrebbero realizzate. La loro implementazione da parte di un governo di destra probabilmente sarebbe diversa da quella scelta da un governo di sinistra. In ogni caso penso che in questi giorni sarebbe opportuno che gli schieramenti politici parlassero un po’ di più di quello che intendono fare per aiutare l’economia italiana a crescere, e magari un po’ meno di quale tassa vorranno abolire dopo il voto (tanto io personalmente non ci credo). Mettere l’Italia su un binario di crescita sana e di leadership nell’innovazione o sui nuovi mercati invece potrebbe portare benessere per i prossimi 10 anni.



[1] Il tasso di crescita annuo medio del PIL dei paesi OCSE nel periodo1990-2010 è stato del 3.01%, mentre quello italiano solo 0.23%.

 

[2] “Quello che serve alle start-up”, Francesco Vella, Lavoce.info 18.01.2013

[3] Numero di Gennaio 5-13 2013, “Mammon’s new monarchs”

25/01/2013
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