La speranza? Un’erbaccia! Freire e l’impegno per far crescere la speranza… sull’orlo del precipizio.

“Sono stato alfabetizzato nel cortile di casa mia,

all’ombra degli alberi di mango (…)

la mia lavagna la terra del cortile,

i ramoscelli il mio gesso”.

P. Freire

 

Se Paulo Freire vivesse adesso, non avrebbe dubbi, appoggerebbe gli scioperi di Greta e delle migliaia di ragazzi e ragazze che chiedono di rompere la distanza tra la scuola e l’ambiente di vita – nel senso letterale, primo e ultimo della parola.

A che serve, infatti, una scuola che continua a tenere i ragazzi chiusi tra quattro mura e a dedicare al massimo qualche ora di scienze per spiegare la fotosintesi, osservando disegni di foglie sulle pagine di un libro o sullo schermo di una lim?

A che serve una scuola che tiene le finestre delle aule spalancate anche in pieno inverno, con studenti che chiedono di aggiungere stufette elettriche ai termosifoni, per contrastare il freddo e il Covid, mentre non si considera nemmeno per scherzo la possibilità di fare lezione all’aperto, nel parco limitrofo, o in piazza, al sole?

A che serve una scuola che non dà modo di capire che i livelli di anidride carbonica non sono mai stati così alti in milioni di anni e che tra 7 anni appena avremo raggiunto il limite della catastrofe?

A che serve una scuola che spiega tutto, ma non dice che anche se oggi stesso si fermassero tutti i processi per cui si bruciano i combustibili fossili, se non si sprecasse più energia e cibo, non si costruisse più, alcuni processi catastrofici continuerebbero comunque? Che non spiega che questo è dovuto al consumismo, al capitalismo, al sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e degli uomini sulla natura, considerata solo in termini di riserva a cui attingere e pozzo nel quale buttare ciò che non frutta più soldi? Una scuola inserita in un sistema di governo che manda al macero milioni di banchi doppi e dà incentivi per l’acquisto di nuove TV?

Può questa stessa scuola spiegare che è a causa di tutto questo che in una manciata di anni la calotta di ghiaccio della Groenlandia si scioglierà completamente e il 97% dei coralli non potrà più darci ossigeno, perché sarà morta?

Può la stessa scuola che toglie a dirigenti scolastici e docenti il tempo e la voglia di riunirsi per definire i programmi annuali spiegare che il 49% dell’inquinamento è causato dal 10% della popolazione mondiale, e che il costo del riscaldamento globale lo pagano milioni di persone che non inquinano?

Grafico: Il 50% della popolazione mondiale (più povero) è responsabile solo del 10% delle emissioni di Anidride Carbonica dovuta ai consumi per stile di vita, mentre il 10% della popolazione mondiale (la popolazione più ricca) è responsabile del 49% delle emissioni di CO2.

 

A che serve una scuola che non dice che le catastrofi metereologiche, dagli anni 80’ ad oggi sono praticamente quadruplicate (vedi grafico), che migliaia di ricerche scientifiche attestano che gli incendi aumenteranno nel mondo in modo vertiginoso (nel bacino del Mediterraneo dal 23% al 40% entro il 2050) e che questo sta già causando milioni di rifugiati climatici?

 

 

A che serve una scuola che non aiuta a capire che se tutto il mondo avesse lo stile di vita degli italiani a maggio avremmo finito tutto ciò di cui abbiamo bisogno per mangiare, bere, scaldarci, muoverci, vivere? Che l’11 maggio 2022 avremmo bisogno di un altro pianeta ma che, dato che abbiamo avuto la fortuna di nascere dalla parte giusta, a metà maggio inizieremo a rubare, per 6 mesi abbondanti, ciò che serve ad altre popolazioni, umane, animali e vegetali?

“Tranquilli, bambini, potremo continuare a rubare, il presente e il futuro, proprio come abbiamo fatto in passato…” Ve lo immaginate?

 

Mio marito mi ferma. Dice che non posso essere così catastrofista, e ammorbare la famiglia – e non solo – con queste visioni così nere, anche se sono vere.

 

Mi fermo e penso. Penso ai tanti anni della mia vita dedicati alla formazione e alla sensibilizzazione, partendo proprio dagli insegnamenti di Freire.

Ero una ragazza quando ho iniziato a impegnarmi in processi di educazione popolare degli adulti, innamorata della forza che può dare la Speranza, ovvero la “comprensione della possibilità di trasformare la realtà”, la comprensione, come cantava De Gregori, sulle orme di Freire, che “la storia siamo noi”.

 

Ora ho cinquant’anni e due figli, continuo a lavorare e impegnarmi per sensibilizzare gruppi di persone, ma ho finalmente capito che, se la speranza è un seme, non basta seminarla dove si può.

 

È necessario andare oltre alla metafora dei semi a cui siamo abituati fin dall’epoca del Nuovo Testamento. Perché non si coltiva semplicemente spargendo semi. Soprattutto nell’era dell’industrializzazione dell’agricoltura, che inonda di pesticidi e diserbanti 1 miliardo di ettari in più, a livello globale, rispetto alle foreste, che continuano ad essere tagliate, a ritmo vertiginoso, per “sfamare” gli oltre 900 milioni di obesi di questo mondo, lasciando senza cibo e con una terra secca e sterile i 700 milioni di persone che muoiono di fame.

 

Gli squilibri non sono mai stati così giganteschi. Una recente ricerca di Oxfam denuncia che il divario tra i super-ricchi e il resto della società è enorme: l’1% più ricco del mondo detiene più del doppio della ricchezza di 6,9 miliardi di persone, ovvero l’88% della popolazione mondiale. Pensate: i 22 uomini più ricchi del pianeta hanno più ricchezza di tutte le donne africane insieme! Se tutti si sedessero sulla propria ricchezza sotto forma di una pila di banconote da 100 dollari, la maggior parte dell’umanità sarebbe seduta al suolo, la classe media di un paese ricco si siederebbe all’altezza di una sedia, i due uomini più ricchi del mondo sarebbero seduti nello spazio. Le enormi disparità economiche – e di accesso all’educazione e alla salute – si sono acuite ancora di più con la pandemia. Il numero di persone che soffrono la fame in pochissimo tempo è raddoppiato, ma le scelte del nostro governo portano a non interrompere, nemmeno in pieno lock down, la produzione di un aereo Caccia F35, che costa alle nostre tasche di contribuenti quanto 7.113 ventilatori polmonari. La produzione di aerei da guerra, infatti, è stata giudicata “di vitale importanza”. Anche per un paese come il nostro, che nella costituzione ripudia la guerra, e che da ormai qualche anno promuove il Servizio Civile Universale. Mai come ora il mondo ha patito un’ingiustizia redistributiva così grande. Mai come ora è urgente e imprescindibile promuovere un’educazione che permetta di porre domande al sistema, e provi a immaginare e applicare alternative, trovando il modo di poter pretendere e ottenere un cambiamento. Ma non abbiamo tempo di aspettare che i bambini crescano, né è giusto e strategico lasciare sole le varie Grete che ogni tanto riescono a strappare uno spazio nella confusione dei media. Perché ci ostiniamo a pensare all’educazione come strumento per i bambini e le bambine, anche quando lo stesso Freire ci ha indicato che è costruendo l’educazione insieme a persone adulte che si creano movimenti di consapevolezza?

 

Nemmeno la parola d’ordine del passaggio tra un secolo e l’altro per tutti noi, operatori del sociale, figli o nipoti delle contestazioni degli anni ’70 – “Think globally, act locally”- basta più. Ho prospettato la situazione globale, ma non voglio limitarmi a proporre una ricetta locale. Perché mentre noi agivamo e continuiamo ad agire a livello locale, le multinazionali agiscono a livello globale con ben altri mezzi, ritmi e risultati. Dettano legge ai governi e cercano di guadagnare sempre, anche – forse soprattutto – dalle disgrazie. Ne è un esempio la stessa tabella delle catastrofi metereologiche che ho presentato poc’anzi: realizzata con migliaia di studi scientifici, è usata dalle agenzie di assicurazione, che devono capire come adeguare i premi e i costi da far pagare…

A rischio di risultare ripetitiva, insisto: le scelte distruttive di una parte dell’umanità obbligano milioni di persone a lasciare la loro terra natale, devastata da guerre, alluvioni, carestie, siccità, con foreste bruciate e rase al suolo per produrre mobili oggetti e carne che solo i ricchi consumeranno…

Quale ruolo ha dunque oggi l’approccio pedagogico di Freire?

Quale ruolo “ha” o, meglio, quale ruolo “dovrebbe avere”?

 

Insegnare non è trasferire conoscenza, ma creare le possibilità per produrla o costruirla

 

Come ci stiamo organizzando per creare queste possibilità, con le persone adulte, nel nostro ricco mondo? Quali fondi e quali azioni stiamo riuscendo a far dedicare, a livello internazionale, all’immensa massa di diseredati e schiavi che producono camicie e olio di palma per gli attuali modelli di sviluppo?

 

Educare è una forma di intervento sul mondo; l’educazione non è mai stata, non è, né può essere neutrale, “indifferente”.

 

Per chi, come noi, non ha mai voluto fare un’educazione indifferente, si pone un problema strategico. Perché è evidente che, pur non essendo pochissimi, non possiamo più permetterci di agire in modo disorganizzato, ognuno restando più o meno isolato/a – e demoralizzato/a – con il suo preziosissimo carico di competenze.

 

Si è parlato tanto del valore del “dialogo” per Freire, ma dai suoi racconti emerge con forza una caratteristica molto forte di questo dialogo: l’affettività. Senza questa, senza il riconoscimento affettivo del valore della persona con cui si dialoga, non sarebbe possibile la restituzione di dignità alla persona oppressa. Ed è questa, la dignità, che ci rende soggetti capaci – e con voglia e impellente bisogno – di intervenire nella storia. Come possiamo usare questo approccio in un mondo che non prevede l’educazione per adulti se non in pochissimi casi, direi borderline? In un mondo che “informa” ed educa on line? In un mondo con un terribile livello di concorrenza mediatica?
Io credo di sì, che possiamo e dobbiamo farlo.
Potremmo, per esempio, metterci d’accordo, stabilire una data significativa per tutti, e invitare tutti a fare esperienza, quell’esperienza che per Freire è al centro del processo educativo e di liberazione. Esperire l’incontro, il limite, il senso di giustizia, la necessaria e salutare diminuzione degli oggetti e del consumo che il mercato ci fa desiderare, la voglia di vivere bene, creando comunità.
Oggi, in Italia, alcune strutture educative propongono questo grazie al progetto “Scuole Aperte”. Si tratta di esperienze virtuose, nate dal felice e precario incontro della disponibilità a un tempo di volontariato di alcuni genitori con la lungimiranza di alcune direzioni scolastiche e/o amministrazioni locali…

 

È necessario, però, rendere visibile questa esperienza, e ampliarla, con precise politiche educative, puntando in modo netto all’educazione delle persone adulte, per esempio mettendo a sistema anche le famose 150 ore di diritto allo studio per cui lo stesso Freire si era impegnato, proponendo che siano destinate, anche solo per un anno, alla conoscenza degli squilibri mondiali, del conseguente riscaldamento globale, e delle possibili strategie di cambiamento.

Dobbiamo crederci davvero, nella speranza, nella possibilità di far sentire a ogni persona il senso del futuro, oltre alle difficoltà o ai desideri del presente.

Dobbiamo crederci così tanto da organizzarci e partire, anche qui in Italia, da chi è escluso, da chi ha tanta esperienza ma non è alfabetizzato/a ai diritti.

Oggi chi si impegna per la costruzione di una comunità educante mette a frutto l’eredità freiriana, ma non si può parlare di vera comunità educante – in Italia, oggi – se tale comunità non include la partecipazione attiva, i saperi, i dubbi, i sogni delle persone che oggi – in Italia – sono oppresse, escluse, sfruttate: le persone migranti, in primis, e tra queste soprattutto le donne.

Sta qui probabilmente un ingrediente magico del successo dell’Associazione Genitori Di Donato: sta nello sportello multiculturale, nei corsi di arabo e cinese, nel gusto dei piatti cucinati dalle mamme migranti, che ci fanno letteralmente assaporare il senso ampio, vero, di umanità. Si dovrebbe decretare per legge, come si fa – o si dovrebbe fare – per i “centri anziani”, la necessità di destinare luoghi ed energie a esperienze come questa, e dedicarci l’attenzione dei media, con la stessa costanza con cui siamo stati bombardati dalle informazioni sulla curva dei contagi. Basterebbe forse anche solo un mese così, raccontando le belle esperienze, dedicando alla semina un campo. Poi, certo, il volontariato avrebbe bisogno anche di un po’ di concime, o di godere di una bella stagione, senza gelate tardive, senza diserbanti.

Proprio ieri ho avuto occasione, per la prima volta in nove anni di impegno, di poter parlare nella Commissione Scuola del 7° Municipio di Roma. Un evento “strepitoso”, dato che ho chiesto di poter fare la stessa cosa anche alle altre precedenti quattro amministrazioni, ma per la militanza non c’era mai spazio… Forse fa paura, forse non porta abbastanza voti, forse è proprio il nostro sistema politico amministrativo a non considerare quali validi e strategici interlocutrici le persone che da una vita si impegnano per l’educazione non formale, per costruire cittadinanza attiva con le persone adulte. Forse non a caso il presidente della Commissione Scuola del 7° Municipio di Roma è un giovane di 25 anni… speriamo dunque, che con i giovani si possa marcare un cambio di passo…

Il punto è, però, che quando in questo stesso incontro ho chiesto di poter organizzare altri incontri e poter delineare una strategia comune, da sviluppare nel corso del mandato di questa nuova amministrazione, non ho potuto avere una risposta affermativa. Un presidente di Commissione sensibile e motivato non basta. So quindi che dovrò insistere, provare e riprovare, trovare il modo di fare massa, o di trovare la breccia. Lo farò di buon grado, sta in questo del resto la militanza, nel non arrendersi, no?

Il punto è che ci ritroviamo a dover sfruttare gli interstizi, le occasioni in cui il cemento si rompe, per crescere – come “erbacce” – e cercare di fiorire e riprodurci nel più breve tempo possibile. Sperando che la giunta favorevole non cada prima della fioritura del sogno.

 

Questa è la speranza che possiamo far crescere oggi. Ci basta? A me, sinceramente, no.

Non sono pessimista. Voglio di più.

 

E’ sufficiente, del resto, fare un semplice calcolo delle probabilità: metaforicamente parlando, l’erbaccia può crescere anche al centro delle grandi città, sfruttare l’azoto delle pisciate dei cani sui muri, sopportare meglio di altre piante il calore dei marciapiedi che d’estate si arroventano, ma non possono competere con le centinaia di migliaia di scuole “coltivate” per produrre.

Siamo alla solita donchisciottesca battaglia, e siamo però ora sull’orlo del precipizio.

L’Umanità, che è ora sull’orlo del precipizio, ha estremo bisogno di militanza, ma il volontariato non basta più.

Perché di volontariato purtroppo non si vive, soprattutto se si ha la responsabilità di una famiglia. Gran parte del terzo settore che si dedica all’educazione, per decenni, non ha saputo o potuto dare impieghi stabili, e ha soffocato la militanza in mansioni sottopagate, alla mercé di bandi attenti al ribasso dei costi più che alla qualità, sbriciolando i diritti del lavoro e la dignità delle competenze maturate.

Così, la stessa associazione che mi aveva fatto conoscere l’“Educazione degli oppressi” a fine anni ’80 formandomi per diventare coordinatrice di campi di volontariato, mi chiedeva, al colloquio di lavoro – dopo anni di volontariato – se avevo intenzione di fare figli. Se avessi risposto sì, a questa domanda illegale, sarei stata scartata, ovvio.

Qualche anno dopo, un’altra ONG, che mi aveva assunto per promuovere in Centro-America progetti per il diritto all’educazione e altri diritti umani (in primis quelli delle donne!) mi ha chiesto di rinunciare al contratto, quando sono rimasta incinta, e non mi ha mai versato nemmeno i fondi della colletta fatta dai colleghi oltremare, per sostenermi nei mesi in cui dovevo stare senza lavoro. Tutto questo avveniva pochi anni fa, tutto questo continua ad avvenire. È anche per questo che io – come centinaia di altre persone preparate e motivate per promuovere l’incontro e l’alfabetizzazione ai diritti – dopo una vita di precariato e delusioni, abbiamo trovato impiego altrove. Un altrove che mi occupa otto ore al giorno.

Quanto spazio riesco a investire nella militanza – per far crescere la speranza – dopo otto ore di lavoro, con la spesa da fare, la cena da preparare? Do tutto ciò che posso al sogno, alla speranza, prima di tutto perché mi fa stare bene, restituendomi il senso politico che i miei genitori mi hanno insegnato, permettendomi di incontrare la meraviglia che sta in ogni bambina che mi chiede, all’orto che abbiamo fatto a scuola, di piantare un seme, la gioia di un papà che da un angolo con tubi rotti riesce a creare un bagno accessibile, l’entusiasmo di una giovane donna che passa i fine settimana a pulire i seminterrati della scuola, lo sguardo sorpreso di due mamme bengalesi quando offriamo loro il thè dell’amicizia, invitandole a frequentare l’orto, seguire un corso di italiano, darci una mano a costruire una scuola aperta, accogliente, amica.

Do tutto ciò che posso, ma è poco. Quando va bene, sono tre o quattro ore a settimana… L’ossigeno, il potenziale curativo e la bellezza effimera di un’erbaccia al ciglio della strada.

Certo, senza questa api e farfalle e altre meraviglie bistrattate e sconosciute soffrirebbero la fame, ma non basta.

Serve un investimento grande, a livello nazionale ed europeo o, meglio ancora, internazionale. Un investimento sulle competenze, che permetta – a chi ne ha – di avere un tempo pieno da dedicare alla causa, e i mezzi per arrivare alle masse, per far emergere e valorizzare altre competenze, per poter chiedere un’educazione differente. Differente da che?

Quando tengo un laboratorio di Ludopedagogia*, arrivando al momento della teorizzazione rendo omaggio a Freire: pongo ai partecipanti una domanda imparata da lui, che credo aiuti molto a capire. “In cosa può differire l’educazione, per gli esseri umani, da quella tra gli animali?”

Se non sapete già la risposta, fermatevi un attimo e provate a fare un paio di ipotesi almeno, prima di continuare a leggere.

Forse avrete ipotizzato ciò che anche i/le partecipanti ai laboratori all’inizio dicono: il linguaggio, la scrittura, gli strumenti…

L’etologia ci ha ampiamente dimostrato che quasi tutte le differenze possono essere contestate: anche gli animali hanno un linguaggio per trasmettere le conoscenze, alcuni lasciano tracce biochimiche da far “leggere” addirittura ad altre specie, alcuni insegnano ai cuccioli a usare ben precisi strumenti per procacciarsi il cibo, e così via…

 

Ma ciò su cui davvero vale la pena soffermarsi è che sostanzialmente l’educazione degli animali si concentra sulla capacità di adattarsi all’ambiente, cercando di sopravvivere al meglio. Anche l’educazione degli esseri umani può essere così. Nel pieno della rivoluzione industriale, per esempio, era assolutamente necessario un sistema scolastico che insegnasse giusto a leggere, scrivere, far di conto e… obbedire. C’era bisogno di tanti operai e soldati, non di persone capaci di ribellarsi. È stato dimostrato che, per ottenere ciò, è necessario garantire i primi 4 anni di scuola primaria, e non andare oltre. Indovinate dunque quanti sono gli anni di istruzione, secondo la Banca Mondiale, che devono essere garantiti – oggi – ai bambini e alle bambine dei paesi sfruttati? Inutile dirlo, purtroppo, avete già indovinato. Sta qui dunque la grande differenza: gli esseri umani possono usare l’educazione come strumento non solo per adattarsi alle condizioni date, bensì anche per ribellarsi alle condizioni date, e cambiarle. A questa ribellione, del resto, dobbiamo i principali progressi dell’umanità: dalla scoperta della penicillina ai sindacati, dall’invenzione della ruota all’abolizione della schiavitù.

 

Questo tipo di educazione, fatta di dialogo e affetto, capace di dare al corpo, ai sensi e all’esperienza la stessa dignità che si dà all’erudizione; quest’educazione inequivocabilmente schierata contro le ingiustizie, che si fa in cerchio, dando spazio al vecchio e anche alla bambina, che restituisce al giocare il valore primigenio della scintilla e all’immaginare il potere del cambiamento… Questo tipo di educazione è ciò che ci separa dal precipizio, è l’erbaccia con radici profonde che – si spera – ci può permettere di non scivolare giù.

Non sarebbe il caso di favorire la sua diffusione, dunque, e in fretta?

 

Valentina Pescetti, Antropologa, cooperante, project manager

 

*Ludopedagogia:

La Ludopedagogia nasce come esperienza specifica dell’Educazione Popolare, che con il maestro Paulo Freire si è sviluppata come movimento continentale in America Latina ed in un’alternativa importante di formazione e produzione del sapere, re-legittimando il sapere popolare e riconoscendolo quale valida fonte di conoscenza della realtà per la costruzione di modelli organizzativi alternativi a quelli proposti dai sistemi di potere dominanti.

Nel contesto delle dittature militari dell’America Latina (negli anni ’70) è così iniziata un’esplorazione inedita, coniugando gli storici principi etico-ideologici dei movimenti popolari (di operai, studenti, piccoli produttori, contadini, impiegati ed intellettuali) con pratiche e forme di resistenza e lotta creativamente innovatrici, capaci, soprattutto, di dare spazio anche ad alcuni aspetti storicamente trascurati da questi stessi attori protagonisti dei movimenti popolari, quali la dimensione socio-affettiva, l’importanza della relazione, della soggettività, della corporeità, dell’allegria e del piacere come fonti e riserve inesauribili ed ancora vergini di potere reale, come importanti possibilità di applicazione didattica e metodologica per creare e rafforzare, tra le altre cose, processi di organizzazione popolare e comunitaria.

È così che, circa 30 anni fa, in Uruguay, inizia a costruirsi l’esperienza politico-professionale che oggi si chiama “Ludopedagogia”, essendo, la Ludica e la Pedagogia, due componenti metodologicamente strategiche per contribuire ad un vero sviluppo integrale, di tutti i settori, nell’attuale “società globale”.

Per “Ludica” intendiamo un’area, un territorio, una parte del fenomeno umano dell’essere, del sentire e del fare in cui è possibile costruire tra realtà e non-realtà, un altro luogo spazio-temporale in cui è possibile che l’impossibile diventi possibile, una terra di mezzo dalla quale si può guardare e re-inventare la realtà attribuendole diversi sensi e significati, un campo di gioco.

Per “Pedagogia” intendiamo un campo del sapere che ha come oggetto principale la conoscenza, la possibilità di conoscere le condizioni della realtà soggettiva ed oggettiva, considerando il soggetto (sia individuale che collettivo) come attore chiave della conoscenza, nel gioco dentro al gioco dell’imparare per trasformare.

23/02/2022
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