Gaza e i doveri del suo gemello Torino

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Forse non tutti sanno che Torino è gemellata con Gaza City: e sì, proprio la nostra Torino, di cui profondamente ci sentiamo parte e di cui siamo tanto fieri.
E siccome i gemellaggi non sono solo una noiosa formalità, ma dovrebbero muovere i gemellati a coerenti sforzi di mutualità, non possiamo che guardare a Gaza con crescente interesse, tanto più in questi mesi di guerra e isolamento.

Perciò è per noi di particolare interesse la cena che si svolgerà sabato nel nostro ristorante torinese De Amicis, organizzata con il Free Gaza Movement (nato all’interno dell’ISM). La cena mira a raccogliere fondi da destinare al loro movimento, che il 23 agosto 2008 ha raggiunto per la prima volta Gaza via mare e il 29 ottobre una seconda volta: si propongono di ripetere l’impresa e stabilire una linea permanente fra Cipro e Gaza, per romperne l’isolamento, per risvegliare la coscienza mondiale sulla situazione e fare pressione sui governi internazionali, affinché rivedano la politica di sanzioni che flagella la Palestina.

Tuttavia su questo fronte, come pure sul boicottaggio ad Israele, sempre promosso dall’ISM, qualcuno ha avanzato la preoccupazione che tali azioni finiscano per legittimare indirettamente il movimento di Hamas. Non è infatti un caso che, l’11 dicembre scorso sul giornale Al-Sharq al-Awsat, lo stesso presidente palestinese Abu Mazen dichiarasse che simili sforzi sono coordinati con Israele e che non sono altro che un “gioco sciocco” che non sta veramente rompendo l’assedio di Gaza, mentre che i portavoce di Hamas rispondessero che le accuse del presidente fossero “stupide” e ne riflettessero “la volontà di screditare e limitare questi viaggi, essendosi reso conto che stava crollando l’assedio, sul quale aveva scommesso per premere sul governo Hamas e sul popolo“.

Affermazioni contrastanti e che lasciano effettivamente sgomenti.

Se infatti l’aiuto alla popolazione civile è un dovere di tutti gli uomini di buona volontà, è altrettanto chiaro che quella del Free Gaza Movement è un’azione soprattutto politica, prima che umanitaria.
Ed è quindi sul giudizio politico che dobbiamo confrontarci!

Cerchiamo allora di fare alcuni passi indietro.
Potremmo partire dal 1948, anno della fondazione dello Stato di Israele e della “catastrofe” del popolo palestinese. O dal 1967, anno della Guerra dei sei giorni, durante la quale l’esercito israeliano prese il controllo della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est.
Oppure più semplicemente dovremmo almeno partire dalle elezioni legislative del gennaio 2006.
Tali elezioni, precedute di pochi mesi dall’unilaterale smantellamento di tutti gli insediamenti israeliani nella Striscia, furono il primo rinnovo del parlamento palestinese, dall’istituzione dell’ANP avvenuta tra il ’94 e il ’96. Ebbene, dieci anni dopo, nel 2006, stravinse a sorpresa Hamas, un’organizzazione paramilitare di ispirazione religiosa islamica. Dopo la vittoria, Hamas offrì ad Israele di prolungare di un anno la tregua allora in vigore, ma i suoi leader affermarono che non avrebbero comunque cessato di lottare contro la presenza di Israele in Palestina: d’altronde il Movimento di Resistenza Islamico prevede “da statuto” la distruzione dello Stato di Israele e la sua sostituzione con un Stato islamico e che “non esiste soluzione alla questione palestinese se non nel jihad“.
In risposta alla vittoria del gruppo, sia gli Stati Uniti sia l’Unione Europea (che considerano Hamas un’organizzazione terroristica) tagliarono gli ingenti aiuti destinati alla popolazione palestinese. I tagli previsti non prevedevano solo il blocco degli aiuti, ma anche il congelamento della consegna del denaro di dazi e tasse raccolti dagli Israeliani per conto dell’autorità palestinese. Il tutto mentre impazzava una lotta tra le due principali fazioni palestinesi, Fatah e Hamas, in competizione per garantirsi il controllo dei Territori Palestinesi. Questa guerra civile durò oltre un anno e portò alla vittoria di Hamas nella sola Striscia di Gaza, che rimase così ancora più isolata e sotto il controllo ferreo e incontrastato di un regime religioso e oscurantista. Da qui la spirale di incomunicabilità e di chiusura sempre più rigida tra Israele e la Striscia con l’escalation di violenza culminata nell’inqualificabile guerra delle scorse settimane.

Ebbene, in uno scenario così drammatico e complesso, ogni risolutezza, così come ogni prudenza, paiono d’obbligo.
L’opinione pubblica mondiale e la società civile organizzata, sono chiamate a forti azioni di pressione sul governo Israeliano, (per altro appena rinnovato con una preoccupante virata a destra), ma parallelamente devono prendere le distanze in maniera sempre più esplicita dalle derive fondamentaliste della politica palestinese.

Per fare ciò io credo che ogni azione debba inderogabilmente mirare all’appoggio fattivo dei deboli movimenti palestinesi di ispirazione democratica: lo dicevamo già in un mio articolo del 4 aprile 2008, in cui parlavamo del partito Terza Via. Non si può essere dei buoni ingenui su questo! La democrazia è una realtà relativamente nuova per la società palestinese ed è costretta a competere con trend economici, culturali e commerciali radicati nel tempo. Inoltre gli ideali democratici necessitano di un potere politico che li rappresenti e ne promuova la crescente integrazione nella pratica pubblica. E questo è ancora più difficile in una democrazia senza stato. Bisognerebbe effettuare una distinzione tra la capacità di vittoria di un singolo partito dovuti ad una lunga tradizione di lotta, e l’abilità di guadagnare voti come scelta dinamica e consapevole di una vasta base pubblica.
L’insuccesso dei partiti laici e democratici palestinesi alle elezioni legislative del 2006 rappresenta il più grande vuoto politico e sociale e diventa un’enorme necessità nazionale. E` disperante dover constatare una situazione in cui la competizione per i seggi parlamentari sia ristretta a due sole foze politiche (Hamas e Fatah), per altro non democratiche. Risulta quindi essenziale che il fronte democratico acquisisca una forza necessaria a formare una reale alternativa, con candidati autorevoli sui quali non pesino le grandi paure già oggetto di alcuni documentati articoli della nostra amica Francesca Paci prima e dell’Espresso poi.
Le forze democratiche progressite in Palestina, sebbene stiano fronteggiando una crisi molto grande, non hanno ad oggi saputo adattarsi sufficientemente alla nuova situazione. Hanno bisogno di riattivarsi e diventare grandi, prima che sia troppo tardi.

Anche così avranno un reale successo azioni come quelle del Free Gaza Movement.
E su questo piano, sarebbe bello che si impegnasse un movimento come il nostro, che si fonda sulla salvaguardia della partecipazione democratica.
Altrimenti che gemelli saremmo?!?

02/03/2009
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