Ex Moi: “vivere di lavoro, non di carità”

 

Esistono giornate mondiali dedicate a molte ricorrenze, battaglie, cause, memorie. Tante che in molti ormai se ne chiedono le ragioni. Il 20 giugno è la Giornata mondiale del rifugiato. Appuntamento annuale voluto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che da oltre dieci anni ha come obiettivo la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla condizione, spesso sconosciuta, di questa particolare categoria di migranti.
A Torino, da mesi, vivono, occupando alcune palazzine dell’ex villaggio olimpico circa 400 persone.
Più che ricordarci di loro, abbiamo ritenuto necessario raccontare ciò di cui queste persone hanno bisogno, dando voce a loro tramite le parole del Comitato di solidarietà di cittadini che sta gestendo questa situazione. Carlo Maddalena, componente del Comitato ci ha raccontato le condizioni in cui vivono queste persone: “dal complicato censimento che siamo riusciti a fare possiamo dire che, per l’80%, sono tutte persone provenienti dalla ‘finita’ Emergenza Nord Africa (ENA). Quasi tutti lavoratori emigrati in Libia da vari paesi”. Più precisamente provengono da Somalia, Eritrea, Etiopia, Ciad, Sudan, Costa d’Avorio, Mali, Senegal, Tunisia, Ghana, Nigeria, Gambia, Burkina, Guinea Bissau, Camerun, Congo, Niger, Algeria, Marocco, Liberia, Bangladesh. Dovrebbero essere 21 nazionalità differenti.

Qual è la loro attuale condizione giuridica?
Intanto c’è da dire che gli occupanti delle palazzine adiacenti all’ex Moi sono tutti in Italia legalmente. La maggior parte di loro è titolare di un permesso di soggiorno umanitario che dura un anno. Ci sono poi i titolari di protezione sussidiaria della durata di tre anni e una piccola minoranza composta da titolari di asilo politico e da quelli a cui è riconosciuto lo status di rifugiato, entrambi in possesso di un permesso quinquennale.

Il gruppo degli “occupanti” è composto di numerose e diverse etnie. Esistono motivi di attrito tra di loro…
In realtà gli attriti derivano da un generalizzato e comprensibile sentimento di frustrazione. Gli abitanti dell’ex Moi sono per lo più persone che hanno lasciato il loro paese per sfuggire alle guerre alle persecuzioni o alla fame e che sono approdate in Libia dove lavoravano ed erano autonome. Quando è cominciata la guerra in Libia alcuni di loro hanno deciso di scappare in Italia ma molti di più hanno subito la rappresaglia di Gheddafi verso l’Europa: sono stati rastrellati, imprigionati e imbarcati a forza su barconi diretti a Lampedusa. Appena arrivati in Italia sono stati inclusi nell’Emergenza Nord Africa e destinati a un centro di accoglienza dove sono stati ‘parcheggiati’ per quasi due anni, alla fine dei quali si sono ritrovati per strada. Per sfuggire alla strada e reclamare i loro diritti hanno occupato tre palazzine, oggi non gli viene riconosciuta la residenza e non hanno fonti di reddito. In ultimo, sono vincolati alla convenzione Dublino2 che prevede l’obbligo di permanenza nel paese che effettua la prima accoglienza, ovvero, i rifugiati sbarcati in Italia non possono cercare miglior fortuna in Germania o Francia. Non possono tornare indietro, non possono andare in un altro paese, riescono a stento a sopravvivere nel nostro. Sfido chiunque nella loro posizione a non essere facilmente irritabile. Quello che intendo dire è che i pregiudizi etnici esistono certamente ma di certo non sono una matrice conflittuale preponderante, piuttosto possono diventare un catalizzatore della frustrazione e della sensazione di precarietà.

Chi si occupa di loro e cosa possono fare?
Non mi piace pensare che qualcuno debba occuparsi di loro, gli abitanti dell’ex Moi sono persone del tutto autonome a cui il nostro Paese non dà la possibilità di vivere autonomamente. Il Moi è una realtà autogestita, le decisioni vengono prese in un’assemblea a cui partecipano anche i membri del Comitato di solidarietà che sostengono i rifugiati.

Di cosa necessitano maggiormente?
Tra le cose che riusciamo a raccogliere, grazie alla solidarietà dei vicini, di vari cittadini e di alcune associazioni, quelle più richieste sono certamente beni di prima necessità, dal cibo ai materassi (per dare un aiuto concreto consulta le liste beniraccolta e farmaciprimosoccorso, ndr), ma soprattutto ci viene comunicata l’esigenza di una vita dignitosa: una casa; un lavoro; un sistema di diritti che li tuteli. Poter progettare il proprio futuro invece di subirlo.

Il Comitato: di chi si compone? Come è nato? Come interviene nella quotidianità della vita dell’ex Moi?
Il Comitato di solidarietà ha una composizione eterogenea. Comprende: studenti; membri dei centri sociali Askatasuna e Gabrio; membri del Comitato rifugiati e migranti; alcuni ragazzi del Collettivo Epi Pantas e ancora educatori, insegnanti di italiano, un’infermiera, un ingegnere meccanico. Il Comitato è un organo del tutto aperto, chiunque abbia voglia di dare una mano è il benvenuto.
È nato in gennaio, dopo che la Protezione civile è uscita dalla gestione dell’ENA, considerata come ‘cessata’. È nato da conoscenti e amici venuti a sapere della situazione disastrosa a cui si andava incontro. Agli inizi di marzo, quando il governo ha decretato la fine della proroga dell’ENA, circa 760 persone sono finite in strada. Un gruppo di loro ha decidso di occupare alcuni edifici per trovare un tetto e per denunciare la loro drammatica situazione e il Comitato li ha supportati nella loro azione e nelle loro rivendicazioni.
Il Comitato si è occupato fin da subito di attivare delle reti di solidarietà per reperire e distribuire materassi, coperte, pasti e altri beni di prima necessità che continuano ad arrivare grazie all’aiuto dei vicini, di vari cittadini e di alcune associazioni. Per il resto crediamo fortemente nelle realtà di autogestione e ci limitiamo a fornire gli strumenti che possano favorire un’integrazione autonoma. All’interno delle palazzine è stata allestita una piccola scuola dove si studia italiano, inglese e matematica e il martedì si tiene un corso per imparare a compilare curricula in formato europeo. Abbiamo inoltre distribuito materiale informativo per agevolare l’accesso ai servizi sanitari al mondo del lavoro e all’istruzione.

Profughi, abbandonati e occupanti…
La dicitura occupazione abusiva fa paura, sembra suggerire una pratica ingiusta e prevaricante. Nel caso dei rifugiati di via Giordano Bruno 201 è una risposta a un’ingiustizia e a una prevaricazione. Non voglio che si pensi che la mia affermazione sia un’ode o un invito all’illegalità. Tutt’altro. Dico soltanto che una società che riduce persone a occupare abusivamente delle palazzine (peraltro abbandonate e inutilizzate da anni) per procurarsi un tetto sulla testa mi sembra un dato assai più allarmante dell’azione che ne consegue.

Chi vi ha aiutati finora?
Sono stati molti ad aiutarci: semplici cittadini solidali, ma anche associazioni e comitati.

 

Quali sono i prossimi passi per uscire dall’empasse creatasi? Cosa desiderano gli occupanti delle palazzine dell’ex Moi?
Il primo indispensabile passo è il riconoscimento della residenza in via Giordano Bruno 201. In casi analoghi, in comuni come Roma, è stata riconosciuta ed è indispensabile per il rinnovo dei documenti, per il rilascio della carta d’identità e per l’accesso ai servizi. Poi certamente c’è la questione del reddito, qui si chiede di vivere con il lavoro non con la carità.

Da GruppoAbele.org

20/06/2013
Articolo di