Concorso docenti: intervista a Mariano Turigliatto, commissario di valutazione

Le polemiche relative alla scuola e alla “Buona Scuola” (L 107/2015) non esitano a placarsi. Sono tanti i nodi incagliati nel pettine su cui docenti e governo dibattono da ormai due anni. Tra questi, uno dei più importanti è il concorso docenti bandito quest’anno che, nelle intenzioni del Ministero dell’Istruzione, dovrebbe mettere la parola fine a un vasto piano di assunzioni a tempo indeterminato. Tuttavia, la messa a bando di questo concorso ha sollevato molte polemiche, che hanno avuto il loro apice poche settimane fa: Tuttoscuola ha pubblicato una prima analisi dei risultati del concorso, rilevando un numero di bocciature così elevato dall’aver lasciato vuoti alcuni posti messi a bando. Lo studio è stato ripreso da molte testate nazionali, che hanno insistito sulla scarsa preparazione dei partecipanti. Questi a loro volta hanno puntato il dito contro la tipologia di prova scritta, realizzata secondo loro appositamente per bocciare, e la troppa severità delle commissioni di valutazione. In altre parole è scoppiato un putiferio ricco di stereotipi negativi sulla classe docente (lavorano 18 ore al giorno, sono ignoranti, fanno tre mesi di vacanza) e difese a oltranza della categoria.

Per eludere posizioni troppo rigide e analizzare in profondità la situazione abbiamo intervistato Mariano Turigliatto, commissario per le prove di Italiano e Storia che si sono appena concluse in Piemonte.

 

Gentile Mariano Turigliatto. Siete stati davvero così severi nelle valutazioni?

Io sono per una scuola poco selettiva per gli allievi e molto per gli insegnanti, perché se tu hai dei docenti in gamba e preparati il prodotto sarà migliore. Fatta però questa premessa, il numero di bocciature non è stato così alto. Su circa 630 candidati, hanno superato il concorso in 443. Il tasso di bocciati è da considerarsi intorno al 25%. I due concorsi a cui ho partecipato per diventare di ruolo sono stati molto più selettivi, anche se erano aperti a tutte le persone in possesso di una laurea e non solo agli abilitati. Per esempio quello del 1975 per le elementari ha avuto una quota del 22% di candidati ammessi agli orali dopo gli scritti.

 

Quindi chi non ha passato il concorso è un “somaro in cattedra” come scrive Gian Antonio Stella?

Non è possibile dare giudizi netti in questo senso. Prendiamo gli scritti: alcune prove, come è naturale che sia, hanno messo in luce lacune a livello contenutistico. La maggior parte degli elaborati però è risultata insufficiente perché il candidato non ha saputo gestire il tempo a disposizione, lasciando vuoti due o tre quesiti. Se si calcola che il punteggio massimo era 40 e ogni risposta valeva 5,5 punti, allora si capisce quanto la velocità sia stata una componente determinante. In questo senso bisogna però sottolineare le responsabilità degli esperti del ministero che hanno pensato una “prova a ostacoli.”

 

E invece come valuta i futuri docenti di ruolo da lei esaminati?

Durante ogni orale a cui ho assistito (Ndr. Circa 200) mi sono sempre chiesto: “Ma questa persona è mediamente meglio o peggio della media dei miei colleghi?”. La mia risposta è sempre stata affermativa. Mi sarebbe piaciuto lavorare con almeno 100 dei 200 che sono passati con me. Infatti mi è capitato spesso di pensare che sarebbe stato un vantaggio se questi fossero nella mia scuola.

 

Un giudizio completamente positivo?

No. Dalle prove orali dei candidati ho notato una diffusa difficoltà nel focalizzare l’approccio didattico sulla relazione con gli studenti. Si tratta a mio avviso di un elemento molto importante in un momento in cui la scuola sta cambiando la propria funzione. Negli anni Settanta, quando ho cominciato ad insegnare, questa è stata l’istituzione principe dell’integrazione sociale, riuscendo ad assolvere al suo compito. Poi, nel trentennio successivo, questa funzione si è persa e la scuola è diventata la sede del sapere, ovvero il posto in cui io “ti metto in testa” quante più cose possibili. Oggi invece il bisogno di una scuola che scommetta sull’inclusività è di nuovo centrale. Penso in particolare al bisogno di lavorare con le seconde generazioni di stranieri. Tuttavia, manca una preparazione all’interno del corpo docente (vecchio e nuovo) nell’affrontare questa sfida.

 

Ma questo non è un problema del singolo docente

No. Questa è una responsabilità politica di chi governa. In questo senso la Buona Scuola non ha offerto risposte adeguate ad affrontare le nuove sfide dell’istruzione pubblica. Essa è piuttosto un effetto a cascata del berlusconismo. Se si vuole costruire una scuola buona e qualificata dal punto di vista dell’offerta bisogna fornire degli strumenti adeguati per perseguire questo obiettivo, ma questi strumenti non non possono avere come punto di partenza il conferimento di maggiori poteri ai dirigenti scolastici. Questi, infatti, per evitare il pericolo ricorsi sono costretti a mettere in atto strategie indirette per gestire i docenti che “non funzionano”.

 

E invece come si potrebbe rispondere alle nuove sfide della scuola secondo lei?

Quello che bisognerebbe fare è aumentare il monte orario dei professori, chiedendo loro di fare a scuola quello che già fanno a casa (preparazione delle lezioni, correzioni, etc.). Ovviamente bisognerebbe anche aumentare il loro stipendio. In questo modo si otterrebbero quattro risultati fondamentali: avere un contingente che vive la scuola al di là del proprio orario in cattedra; aumentare la motivazione del corpo docente; eliminare gli stereotipi degli insegnanti fannulloni; marginalizzare tutti coloro che considerano la scuola alla stregua di un secondo lavoro.

13/09/2016
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