#jesuischarlie – Scontro tra civiltà?

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Seconda parte della rubrica sui fatti di Charlie Hebdo. Questa volta ci focalizziamo sull’Islam, mettendo in luce due stereotipi molto pervasivi nella nostra società: la teoria politica dello scontro di civiltà e la questione del rapporto tra Islam e violenza. Per approfondire ulteriormente potete consultare le schede di approfondimento sull’Isis e sul conflitto Israelo-Palestinese

 

Scontro di civiltà?

La prima reazione di molti opinionisti, dopo le notizie di Parigi, è stato il riferimento allo “scontro di civiltà” : l’attentato non è stato interpretato solo come un atto terroristico e violento, ma come il simbolo di una guerra in atto da tempo contro la civiltà Occidentale.

Marc Augé sostiene che sia stato un attentato palesemente contro le ragioni stesse della nostra civiltà. Gli uomini sono stati uccisi per le loro posizioni, per ciò che esprimevano: gli attentatori hanno dunque voluto uccidere la libertà di pensiero e di parola e, dunque, uccidere simbolicamente le conquiste del mondo occidentale

Sofri sostiene anche che la guerra di civiltà non sia così asimmetrica come sembra: il terrorismo si è fatto Stato mentre l’Occidente non è riuscita a prendere posizioni troppo nette e ha tramutato gli “invasati” nelle nostre città in avanguardie.

Sono però state molte le voci di chi, invece, ha cercato di dare una spiegazione più articolata, confutando la tesi dello scontro di civiltà, e cercando spiegazioni differenti.

Intanto, provando a definire meglio la questione: Kristof sottolinea come, sebbene vi sia una vena di intolleranza e di estremismo islamico dietro l’attentato a Charlie Hebdo, non sia possibile rappresentare con un esiguo numero di estremisti una religione con oltre 1,6 miliardi di fedeli. In altre parole bisogna evitare le critiche solo di matrice religiosa (che riguardano anche il mondo cristiano, pensando a Srebrenica, ma anche ad Utoya): il vero divario non è quello tra le religioni, ma tra terroristi e moderati, tra che è tollerante e chi considera l’ “altro” un diverso.

Una tesi simile viene proposta da Al Muttawa  che sostiene semplicemente che «il mondo è pieno di pazzi e alcuni di questi sono musulmani» L’attentato di Parigi ha preso di mira un simbolo, come Charlie Hebdo. Non è la prima volta che accade, anche chi ha ucciso John Lennon voleva spegnere una voce. Anche al-Muttawa ricorda come ogni religione abbia vissuto un momento estremista, compreso il cristianesimo e come tutti i libri sacri contengano passaggi violenti, ma il problema nasce quando chi li legge è pieno di rabbia e sceglie di usare strumentalmente la religione.

Moni Ovadia in un’intervista ricorda che il fanatismo c’è dappertutto ed è molto simile nelle sue forme, come dimostra Sarajevo, sede dell’islamismo più aperto e pacifico e città tra le più accoglienti d’Europa, ma vittima del fanatismo cristiano. Per rispondere ai fanatismi non serve invocare una guerra di civiltà, ma bisogna costruire una cultura di pace. L’impegno per la pace serve a togliere ossigeno alle violenze, non a legittimarle.

Slavoj Zizek parte invece da un interrogativo sul complesso di inferiorità dei fondamentalisti, chiedendosi perché si sentano minacciati dai non credenti, e arrivando a sostenere che il terrore dei fondamentalisti non sia radicato nella convinzione della propria superiorità o dal desiderio di preservare la propria identità culturale e religiosa dall’assalto dell’occidente, ma nel fatto che loro stessi si sentano segretamente inferiori, che abbiano segretamente interiorizzato i nostri parametri e li usino per misurare se stessi. La conclusione dell’articolo pone, però una questione anche all’Occidente, sostenendo che «chi non è disposto a parlare in modo critico della democrazia liberale non dovrebbe contestare neppure il fondamentalismo religioso.»

Quasi a corollario di questa affermazione, si può leggere l’articolo di Maffettone: la condanna della violenza è unanime in tutto il mondo, ma questo non significa per forza esaltare i grandi valori della cultura occidentale. Per una gran parte del mondo (indiano, islamico, africano) quei valori sono l’anticamera della violenza dell’Occidente, del colonialismo, della schiavitù. Questo non significa che l’Occidente debba rinnegare i suoi valori, ma prendere atto del fatto che essi hanno abbiano avuto esiti non apprezzati e apprezzabili; la modernità non può essere imposta, ma si può accompagnare con delle scelte che diano il buon esempio “non bombardando e invadendo, non attizzando i focolai di guerra sparsi per il mondo, non vendendo armi a tutti i contendenti, non comprando il petrolio dai dittatori, e così via”.

Infine, una riflessione sul nostro occidente secolarizzato viene offerta da Becchi che prova a ripercorrere, con un breve excursus, il mutamento del concetto di guerra e “ordine mondiale”, per arrivare a sostenere che siamo di fronte al fenomeno nuovo, ma in realtà con radici antiche, della guerra mossa da un impulso religioso. Se nel mondo cristiano il processo di secolarizzazione ha portato alla nascita degli Stati, nel mondo islamico questo processo non è avvenuto e la religione è rimasta dinamite dei popoli musulmani.

 

L’Islam è violento?

Ernesto Galli della Loggia all’indomani della strage definisce l’Islam “un problema”, perché è una religione incompatibile con quelle che vigono in quasi tutte le parti del mondo.

Molti autori, islamici e non, hanno invece cercato di dimostrare come non sia realmente così, usando elementi diversi a supporto della tesi:

Kepler pone l’attenzione sul fatto che l’attentato risponde ad un strategia chiara di un gruppo minoritario all’interno dell’Islam, che vuole la guerra a tutto campo contro l’Europa, strategia che segue i dettami della dottrina di Al-Suri, che teorizza la necessità della violenza nei paesi occidentali per creare un clima di aperta guerra civile tra i musulmani e il resto della popolazione.

Con questo articolo emerge già chiaramente una questione aperta: nella retorica occidentale si parla di Islam come termine collettivo, cosa che non corrisponde a realtà. Nel variegato mondo della religione islamica esistono molte correnti, scuole di pensiero e tradizioni, come ricordato anche dallo scrittore Al Aswani.

Da queste prese di posizione, comuni a molti intellettuali islamici, emerge la convinzione secondo cui nella lotta al terrorismo islamico, i migliori alleati sia la maggioranza dei musulmani che non si sente rappresentata dai sicari dell’Isis.

Simbolo di un Islam che non si riconosce negli attentatori è diventato Ahmed Merabet, il poliziotto musulmano freddato da uno dei fratelli Kouachi: l’immagine della bara del poliziotto musulmano ucciso dagli attentatori e avvolta nella bandiera francese è simbolo delle contraddizioni di questa storia. Anche al cimitero islamico di Bobigny si ripete “Allah Akbar”, per ricordare che l’Islam è una religione che predica il rispetto, l’amore e la tolleranza e che gli attentatori colpiscono in nome di un falso Islam.

Leggi la prima parte della rubrica

06/02/2015
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