Protagonisti del cambiamento nelle periferie urbane

Io non sono un pedagogista, ma un urbanista e in più appartengo al mondo universitario, dove quindi tendenzialmente si ha più a che fare con la ricerca, piuttosto che con l’azione pratica.

Il pensiero di Paulo Freire potrebbe quindi risultare lontano.

Per me, invece, l’incontro con i suoi scritti e le sue riflessioni è stato assolutamente fertile, ricco di sollecitazioni e persino una guida per il mio lavoro.

 

La mia ricerca come urbanista e universitario, infatti, si è molto concentrata sulla riqualificazione e sulla promozione dei quartieri e, in particolare, delle periferie, soprattutto quelle romane. Il mio approccio, quindi, si è caratterizzato per alcuni aspetti.

In primo luogo, pone al centro il lavoro sul campo, nei contesti concreti. Solo il confronto con la realtà permette di capire i veri problemi e le questioni su cui lavorare.

Inoltre, il lavoro sul campo permette di fondare la ricerca sull’incontro con le persone, sull’assunzione del punto di vista degli abitanti (o, meglio, dell’abitare), sulle relazioni che si instaurano con i diversi attori e i diversi soggetti che si muovono sul territorio.

L’obiettivo di fondo è migliorare le condizioni dell’abitare nella vita quotidiana e quindi non si può che partire dalle persone, che sono al centro dell’attenzione, ma che sono anche tra i principali protagonisti della riqualificazione dei quartieri e del proprio contesto di vita.

Sulla scia di questo posizionamento, in secondo luogo, una ricerca di questo tipo non può che essere di tipo interdisciplinare, con una particolare attenzione all’approccio etnografico, che si fonda proprio sul rapporto con le persone in una dimensione situata.

Normalmente, oltre che con urbanisti, pianificatori, architetti e ingegneri (di diverso tipo), lavoro insieme a sociologi, antropologi, geografi, ecc.

È molto interessante apprendere dai diversi punti di vista e dalle diverse competenze e farle interagire tra loro.

Il terzo aspetto si riferisce ad una ricerca che si sviluppa all’interno di processi reali, in termini di ricerca-azione.

Si tratta di un termine che si è andato molto diffondendo, ma che non deve essere interpretato come ricerca applicata o come ricerca che si traduce in progetti ed azioni (anche se questi possono spesso esserci, come esito indiretto della nostra attività), ma come una modalità di fare ricerca che sta dentro i processi, assume un approccio processuale, si sviluppa nell’interazione con i diversi attori e protagonisti e che comporta un posizionamento critico, non neutrale.

Anche nei confronti delle persone cui ci si affianca.

 

Questo tipo di approccio si lega, da una parte, all’idea che teoria e prassi non possono essere slegate.

Le cose si capiscono (anche in forma teorica, o che possono essere portate a un livello di teorizzazione) soltanto attraverso il confronto con i processi reali e le persone concrete.

Contemporaneamente la prassi ha bisogno di un supporto teorico-critico, non è semplicemente un fare, soprattutto se vista all’interno di una dimensione di vita collettiva.

D’altra parte, si lega anche all’idea che l’Università non può restare in una turris eburnea, ma deve mettersi al servizio dei territori e della società, nel pieno senso della parola.

La ricerca è, per me, servizio. Inoltre, l’Università non può mancare al ruolo di soggetto critico all’interno della società.

 

Il mio approccio (e del gruppo di ricerca con cui lavoro), di tipo relazionale, parte quindi dal rapporto con le persone ed i contesti.

Esso nasce, e qui ci avviciniamo più direttamente alle riflessioni di Freire (che, per me, si incrociano anche con quelle di altri pensatori), anche dalla considerazione che bisogna partire dalle persone per pensare il cambiamento.

Non soltanto in relazione ad un cambiamento interiore (posizione propria del cattolicesimo e che rimane comunque valida, peraltro anche nel pensiero dello stesso Freire), ma anche perché sono gli abitanti di un quartiere i principali protagonisti del cambiamento del proprio contesto di vita, piuttosto che le istituzioni.

Nel contesto attuale, infatti, la politica e le istituzioni risultano sempre più lontani dai territori, sia in termini di capacità di relazionarsi e raccogliere le esigenze emergenti, sia in termini di costituire una catena di trasmissione tra tali esigenze sociali e lo spazio delle decisioni, sia infine per una progressiva perdita di capacità di pensare il futuro, di prospettare alternative, cambiamenti, miglioramenti delle situazioni.

La forte pressione, non solo economica ma anche culturale e sociale, del modello neoliberista, il prevalere dell’economico sul politico, la funzionalizzazione di tutte le attività umane al mercato ne sono le cause principali. Insieme alle specifiche contingenze della società attuale, bisogna anche considerare il carattere stesso delle istituzioni, che è prevalentemente conservativo.

Le istituzioni tendono ad autoconservarsi. Si è progressivamente rotta la catena di trasmissione tra la società istituita e la società istituente (Castoriadis, 1975), tra le forme, cioè, strutturate ed istituzionalizzate, stabilite nella convivenza collettiva (e che la permettono) ed il “magma dei significati sociali”, che si radica nella vita della società e cerca continuamente risposte nuove ai problemi emergenti.

In realtà la politica non è totalmente sorda né le istituzioni sono totalmente refrattarie al cambiamento, ma questo avviene – salvo casi “illuminati” – prevalentemente attraverso il conflitto, la pressione politica e civile e, operando uno scarto, le diverse forme di autorganizzazione, anche di tipo antagonista (Cellamare, 2019).

Queste ultime costituiscono spesso la risposta autoprodotta ai problemi emergenti, quando non ci sono altre risposte (almeno da parte del “soggetto pubblico”), soprattutto in un contesto di progressivo arretramento del welfare state.

 

Nella mia esperienza di ricerca e di ricerca-azione è diventato sempre più importante lavorare in una condizione immersiva, se non a fianco almeno in relazione con gli abitanti e soprattutto con le realtà che operano sui territori in funzione di un cambiamento. Senza peraltro abbandonare il tentativo di mettere in relazione i soggetti locali con le istituzioni e i luoghi delle decisioni, così come un ruolo di catalizzatore – che si pone tra locale e contesto esterno – delle energie e delle risorse a favore della riqualificazione e della promozione di quei contesti.

Qui entra ancora più in campo la riflessione di Freire, anche perché si sta di fatto sottolineando la funzione pedagogica che questo tipo di ricerca può assumere all’interno dei territori (Freire, 1968).

Alcune domande si pongono infatti rispetto al posizionamento di un soggetto come il ricercatore, e più in generale come l’Università, all’interno di tali processi di cambiamento, che sono anche processi politici, oltre che culturali e sociali, e che quindi si muovono in una dimensione collettiva, in uno “spazio pubblico”.

 

La prima riflessione mi spinge a riaffermare che i principali protagonisti del cambiamento sono gli abitanti, a partire da quelli che esprimono un maggiore protagonismo sociale e forme di cittadinanza attiva. Questo vale anche in quei contesti più in difficoltà, come i quartieri di edilizia residenziale pubblica (i “quartieri popolari”) che sicuramente hanno meno risorse e meno “capitali” (nel senso di Bourdieu, 1979).

I “poveri” si salvano da soli.

Questo non significa abbandonarli a se stessi, quanto piuttosto che non ci si può sostituire a loro nella promozione del cambiamento.

L’Università può essere un soggetto molto forte, ma è estraneo, e nelle esperienze che ho avuto modo di conoscere in cui si è sostituita ai soggetti locali, più o meno organizzati, o ha assunto un ruolo di protagonista, l’effetto di lungo periodo è stata la depressione delle forze sociali e delle capacità locali di prendere in pugno le situazioni e portarle avanti.

Quando l’Università ha concluso la sua azione e la sua presenza, tutto si è smontato. Bisogna piuttosto supportare la formazione di soggettività (politiche) autonome, capaci di portare avanti una propria azione a favore del proprio contesto di vita.

Mi è capitato spesso di parlare di “politiche per l’autorganizzazione”, ovvero di politiche che riconoscano e valorizzino le iniziative locali, le progettualità, le forme di protagonismo, che pure sono presenti sui territori. L’attività di ricerca-azione deve quindi mirare a far crescere le capacità (progettuali, politiche, di iniziativa, ecc.) della collettività locale, i suoi “capitali”, nonché le forme di riappropriazione del proprio contesto di vita.

Un ruolo sicuramente non indifferente.

 

La seconda riflessione, che si lega alla precedente, parte dalla considerazione che gli abitanti non hanno sempre ragione.

Vi è cioè un posizionamento critico del ricercatore non soltanto nei confronti delle amministrazioni che non lavorano adeguatamente o del modello di sviluppo prevalente che è spesso distruttivo e certo non migliora le condizioni dell’abitare, ma anche nei confronti degli stessi abitanti, di cui spesso mi è capitato di non condividere le idee e le posizioni.

Gli abitanti, infatti, incorporano spesso, come forma di “habitus” (Bourdieu, 1980), quegli stessi modelli culturali e sociali che costituiscono il problema.

Questo mi è capitato spesso di notarlo rispetto al tema della mobilità.

Molti hanno come obiettivo la maggiore possibilità di movimento con la propria auto e la maggiore possibilità di parcheggiare sotto casa.

In termini di politiche questo significa favorire la mobilità privata individuale che è il sistema sicuramente più insostenibile. Bisognerebbe piuttosto pensare a rendere efficienti il trasporto pubblico collettivo o le altre forme di mobilità sostenibile.

Un altro esempio è riferibile al contesto del quartiere di Tor Bella Monaca di Roma, dove mi capita di lavorare da molto tempo, ma che riflette una situazione comune a molti altri quartieri italiani di edilizia residenziale pubblica, dove sono diffusi lo spaccio della droga e la presenza della criminalità organizzata.

Il ruolo delle economie criminali può essere combattuto solo strutturalmente, lavorando sul sostegno al lavoro, sullo sviluppo delle economie locali, sulla lotta alla disoccupazione.

Al contempo questo, qualora pure si facesse (ma ancora siamo molto lontani), non sarebbe sufficiente.

Il modello culturale e sociale del facile guadagno e dell’ostentazione della ricchezza costituisce un modello molto difficile da combattere.

Si tratta di contesti dove è molto richiesta una maturazione politica e culturale, certamente non facile.

Il ruolo del ricercatore deve essere quindi quello di un posizionamento critico, ma anche quello di promuovere il confronto politico e culturale, creando spazi “pubblici” di interazione, di discussione e di maturazione. Questo può avvenire anche, ad esempio, attraverso l’interazione progettuale o l’organizzazione di processi di azione e intervento.

Al contempo il ricercatore non è neanche il soggetto portatore di verità, sebbene la propria attività di studio e riflessione dovrebbe sicuramente comportare un maggiore “capitale” culturale (ma non necessariamente politico).

Questo significa che è importante anche un po’ di umiltà, ovvero l’accettazione di far parte di tali processi di maturazione, di interagire con gli altri protagonisti all’interno di una discussione collettiva, che è lo “spazio pubblico” da costruire. Devo dire che ho imparato molte cose dall’interazione con gli abitanti e dalla partecipazione a questi contesti, oltre al fatto che mi ha permesso di capire molte cose che altrimenti non avrei visto o compreso.

Tanto che possiamo anche parlare di co-ricerca, quando la riflessione e gli esiti della ricerca nascono proprio dall’interazione, dallo scambio, dal contributo di ciascuno, sono un prodotto collettivo. Questo non risparmia dalla frustrazione quando l’interazione appare asfittica e non costruttiva, quando si disperde in conflitti di basso livello.

 

In questa dinamica anche la scuola ed il mondo dell’educazione giocano un ruolo importante.

In primo luogo, perché in molti quartieri più difficili la scuola costituisce oggi l’unico presidio pubblico territoriale, l’unica presenza costruttiva di una rappresentanza istituzionale, con un grande investimento di energie, con molte attività che hanno un riverbero molto ampio all’interno del territorio, con un ruolo importante di catalizzatore dell’interazione e della solidarietà sociale, anche perché capace di raggiungere le famiglie.

In secondo luogo, perché, in linea con quanto si diceva prima, è molto importante lavorare sull’educazione alla cittadinanza attiva, anche con i più giovani (e non solo). Mi è capitato quindi spesso di lavorare con le scuole o in progetti in cui sono state coinvolte le scuole, sia ai fini della riqualificazione dei quartieri sia per il sostegno alla comunità educante e lo sviluppo di patti educativi di comunità. Penso sia un importantissimo terreno di lavoro, a maggior ragione all’interno di un approccio integrato.

 

Il debito nei confronti di Freire rimane enorme e l’attualizzazione del suo pensiero è molto viva. Così come rimane fondamentale il ruolo di protagonisti del cambiamento, della riqualificazione dei quartieri, soprattutto nelle periferie.

 

 

Carlo Cellamare, urbanista e docente universitario

Riferimenti bibliografici

Arendt H. (1958), The Human Condition, University of Chicago (trad. it. : Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1964)

 

Bourdieu P. (1979), La distinction, Les éditions de minuit, Paris [trad. it.: La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna, 1983]

 

Bourdieu P. (1980), Le sens pratique, Les Editions de Minuit, Paris [trad. ingl.: The Logic of Practice, Polity Press, Cambridge, 1990]

 

Castoriadis C. (1975), L’institution imaginarie de la societé. II: L’imaginaire social et l’institution, Editions du Seuil, Paris (trad. it.: L’istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino, 1995)

 

Cellamare C. (2019), Città fai-da-te. Tra antagonismo e cittadinanza. Storie di autorganizzazione urbana, Donzelli, Roma

 

Freire P. (1968), Pedagogia do oprimido, trad. it. Pedagogia dell’oppresso, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2011

04/03/2022
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