Non è scuola, non è lavoro

Per me la morte di Lorenzo continua a non essere definibile. Non riesco a farla passare come morte bianca, non solamente, ma sono anche consapevole che non è scuola, non è sicurezza scolastica. Non è scuola e non è lavoro. É una storia che non ha cornici precise entro cui essere raccontata, rimanda un senso di precarietà e insicurezza. In mezzo e con gli studenti, siamo confusi non sapendo a chi rivolgerci per dare voce alla morte di un ragazzo di 18 anni.

 

A Udine, la mattina del 28 gennaio, la piazza era silenziosa. Nessun simbolo e nessuna bandiera distingueva le persone presenti, così avevano chiesto nel comunicato stampa la rete di studenti e collettivi. Una piazza composta, dove la maggior parte dei presenti ascoltava in silenzio chi interveniva sul “palco”; “Lorenzo è vivo e lotta insieme a noi”, l’unico coro che ogni tanto si faceva sentire e che spezzava per un attimo quel silenzio teso. In tanti hanno parlato di scuola, del senso di insicurezza in cui si sentono continuamente immersi, con quella frase “potevo essere io” che mi ha lasciato un senso di impotenza enorme, potevamo essere noi tutti. Di lavoro se ne è parlato ma poco, uno sguardo preoccupato al futuro dove tutto sembra ancora più precario.

 

E poi a Torino, venerdì mattina, un corteo spezzettato. La piazza davanti alla stazione di Porta Susa in pochissimo tempo si è riempita di studenti, ma più di un ora prima di partire in corteo. Gli interventi provocavano consenso da parte di alcuni e disaccordo in altri punti. Studenti arrabbiati, spezzettati in gruppi con i propri slogan e striscioni. Qualche adulto, per lo più sindacalisti, ognuno con la propria bandiera; e poi noi, una manciata di persone del  nostro movimento, a camminare ai margini del corteo. Ricordo che dietro a Ramona per un po’ ha camminato, con la sua bici, una ragazza con il cubo arancione di Just Eat, parlava della situazione dei rider con chi aveva intorno. Quello è lavoro?

 

Scuola e lavoro, anche qui si è parlato tanto di scuola, forse semplificando un po’ troppo e perdendo il filo del discorso nella foga del momento. Rabbia, tanta, verso le istituzioni perché ci si è sentiti non ascoltati, perché non interpellano gli studenti quando si parla di scuola, rabbia verso le repressioni violente delle forze dell’ordine nei cortei antecedenti a questo.

 

Il senso di precarietà è continuato, in queste settimane, ad esempio in tutti quei momenti durante un laboratorio ScuTer in cui si finiva a parlare di scuola, ancora di Lorenzo, e di un sistema che fa sentire oppressi. Cosa fare? Occupare? fare cogestioni? Assemblee e collettivi? Forse questo non basta più, o almeno non può più essere l’unica soluzione. Non è scuola, non è lavoro: ridefinire che cosa deve essere scuola e che cosa lavoro, capire dove queste due parole possono incontrarsi, non è semplice. Ed è con questa complessità che gli studenti si stanno scontrando.

 

E noi, in mezzo a questa confusione, nelle piazze e nelle assemblee con tutti quegli studenti agitati come ci sentiamo? Ci sentiamo meno precari di loro? O sentiamo comune quel senso di smarrimento? A noi il futuro cosa dice?

 

Ci stiamo interrogando se un altro mondo è ancora possibile, se possiamo ancora sognare e organizzarci per realizzare davvero qualcosa di diverso e migliore. Un mondo in cui il lavoro possa liberarsi da logiche di profitto, oggi per pochi, per tornare a considerare le persone come obiettivo del lavoro stesso e non strumento della produzione, parte di una catena di montaggio. Nel lavoro la nostra possibilità di raccontarci agli altri, di assumere un’identità nella società e la possibilità di partecipare al bene comune; generare autonomia per una persona significa riqualificare un territorio, la sua comunità di riferimento. E nella scuola il lavoro, così inteso, può trovare posto,  per costruire percorsi di crescita individualizzati ma pur sempre inseriti in una comunità (educante).

 

Oggi la scuola e il lavoro sono indicatori della qualità della nostra democrazia, Aboubakar Soumahoro lo sottolinea spesso; lui che è arrivato in Italia per dare forma ad un altro futuro possibile e che per i primi anni non ha potuto raccontarsi alla società a causa del suo lavoro rimanendo invisibile, perchè a raccogliere pomodori per pochi euro all’ora non c’è dignità e senza questa non hai motivo di far vedere alla tua comunità che esisti.

 

Un’altro mondo è possibile? Finchè continueremo a parlare, a organizzarci e a prenderci cura della scuola e del lavoro, si. Lo stiamo già facendo, viviamo luoghi che sono beni comuni dove il lavoro genera davvero autonomia, per noi giovani prima di tutto, e viviamo la scuola convinti che in quei luoghi si possa generare un cambiamento.

 

Chiara Sacchetto 

28/04/2022
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