Il prezzo della pace

Adoro lo scricchiolio del giornale quando si apre. Adoro quello scossone deciso che danno i polsi per stenderlo, per renderlo ben leggibile.

 

Sono in un mini van che mi trasporterà al lavoro, nelle campagne colombiane a 2800 metri sopra il livello del mare, su delle Ande in questo periodo gelide e umide.

 

Sbircio il giornale  del vicino, è solo pubblicità di un famoso supermercato locale. Peccato. Le notizie, ultimamente non sono per niente buone, ho fame di approfondire, di capire quel che succede, in questo paese in cui ormai vivo da due anni.

 

Dopo il Premio Nobel per la pace al Presidente Santos, la firma degli accordi di pace e un referendum, che seppur andato male ha alimentato le speranze in un paese diverso, la Colombia sembrava davanti a una svolta.

 

Non è così, non è ancora così. I colombiani continuano a morire, continuano ad aver paura, continuano a combattere, gli uni contro gli altri, in una guerra che sembra non aver fine.

 

E’ della scorsa settimana la terribile notizia di un massacro di contadini a Tumaco, città in cui la regione andina lascia spazio alle coste dell’Oceano Pacifico. A uccidere, la polizia, che ha sparato sul gruppo inerme.

 

Ma cosa sta succedendo a Tumaco? Perché la gente viene uccisa? E per di più dalla polizia?

 

Questa zona pacifica, così come molte altre diffuse nel paese, è zona di coltivazione della coca, pianta sacra per gli indigeni locali, convertita nel simbolo colombiano più, purtroppo, conosciuto a livello internazionale, insieme ai chi, con la cocaina ha costruito il proprio impero, Pablo Escobar.

 

Gli accordi di pace dell’Avana, firmati nel 2016 con le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie), prevedevano la sostituzione delle coltivazioni illegali per generare nuove economie, per fare uscire le famiglie dalle logiche di un mercato sporco e ingiusto.

 

Non solo il rispetto degli accordi sta andando a rilento ma, in alcuni casi, come quello di Tumaco, non esiste. La sostituzione delle coltivazioni illecite non dovrebbe essere in nessun caso forzata ma frutto di accordi con le comunità locali. Più volte sono stati inviati aerei carichi di pesticidi per distruggere le piantagioni, altro che accordi.

 

Da fine settembre i contadini di Tumaco stavano protestando contro la distruzione delle piantagioni, unica fonte di ingresso per le famiglie della zona. Manifestazioni pacifiche, che il 5 ottobre la polizia antinarcotici ha trasformato in un massacro sparando indiscriminatamente sui partecipanti.

 

I medici accorsi sul luogo hanno reso pubblico un comunicato nel quale si afferma che i morti sarebbero stati colpiti da armi da fuoco a una distanza di meno di 5 metri, riportando ferite alla nuca e alla spalla. I presenti raccontano di essere stati fatti scappare con l’uso di lacrimogeni, da lì gli spari, le urla, il sangue.

 

La polizia aveva inizialmente provato a fornire una versione distinta dei fatti, affermando che le morti sono state dovute a un’esplosione accidentale, versione che non trova conferma né nelle parole dei contadini, né in quelle dei medici, né nel luogo dello scontro. Le indagini sono tutt’ora aperte per individuare nomi e cognomi dei responsabili.

 

Una delle frasi che stanno circolando dopo i terribili fatti del 5 ottobre è “Fue el estado” “è stato lo Stato”, ed è così. A inviare la missione un governo totalmente irresponsabile, colpevole di un massacro di cittadini.

 

E’ di ieri un’altra terribile notizia, la morte di uno dei leader sociali che aveva denunciato i fatti di Tumaco, additando come responsabili lo stato e i gruppi paramilitari che seminano il terrore nella zona. Non c’è garanzia alcuna per chi protesta, per chi mette in luce la pesantezza delle situazioni che quotidianamente le comunità contadine, indigene e afro sono costrette a subire.

 

L’accordo di pace, infatti, è stato stretto solo con le FARC ma rimangono fuori troppi gruppi armati che ora si contendono i territori.

 

Pochi giorni dopo il massacro di Tumaco la “seleccion colombiana” ha disputato un’importante partita contro il Perù, un pareggio che è bastato alla squadra per assicurarsi un posto ai mondiali in Russia. Clacson, grida, orgoglio nazionale manifestato dalla miriade di magliette gialle per le strade.

 

Per i concittadini di Tumaco piccole manifestazioni di cordoglio, qualche striscione e qualche candela accesa. E si capisce, ci facciamo annebbiare da una felicità che non sarà mai veramente nostra, perché James Rodriguez, capitano della squadra, molto probabilmente non lo saremo mai, mentre quel contadino di Tumaco si. Potremmo essere noi, siamo noi.

 

E allora preferiamo strombazzare per qualcosa che pensiamo ci appartenga, perché ci fa sentire felici. E non abbiamo il coraggio di urlare per un connazionale ucciso da chi dovrebbe proteggerci.

 

La comunità internazionale non può abbandonare una Colombia lontana da garantire ai propri cittadini delle soluzioni facili e veloci. Il processo è lento e pericolante. Le elezioni del 2018 fanno paura, paura che crolli quel poco che fin qui si è riuscito a ottenere.

19/10/2017
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