
Frontera
“Si ce l’ho ancora”, tocco la tasca mille volte, il mio passaporto è ancora lì immobile, congelato dal freddo d’agosto sulle Ande. Ho sempre paura di perderlo e, come se avesse vita propria, mi assicuro che non scappi.
Sono alla frontiera tra l’Ecuador e la Colombia, devo tornare a casa, in Colombia, dopo una settimana di lavoro al di là della frontiera. In cuor mio spero non ci sia tanta gente per poter fare in fretta, mi aspettano ancora due ore di pullman per arrivare a Pasto, dove vivo e ho un gran sonno.
Ho uno zaino con i mie strumenti del mestiere: macchina fotografica, microfono, semi di mais, e l’agenda e un’altro, con i vestiti e delle conchiglie rubate alla spiaggia equadoreña. Pesano un sacco e mi faccio forza per trascinarli giù dal bus e iniziare la fila.
Ormai sono abituata a timbrare il passaporto, ce l’ho quasi pieno, capisco il regalo di un’Europa unita che ha abbattuto almeno la barriera dei timbri.
Lo scenario che si apre davanti ai mie occhi è incredibile. Una fila immensa accerchia come un serpente la sede della dogana, sia dal lato della Colombia che da quello ecuadoregno. In mezzo un ponte che si affaccia a strapiombo su un fiume, che passata la frontiera cambia nome, “Carchi” per l’Equador, “Guaitara” per la Colombia, stessa acqua, due nazionalità.
Ci sono due file, una per stranieri e colombiani e una per i venezuelani. E’ più o meno da ottobre dell’anno scorso che il flusso di migranti dal Venezuela è cresciuto in una maniera esorbitante, stando alle ultime cifre sono quasi 4 milioni ad aver abbandonato il paese.
La situazione è disperata, la moneta nazionale non vale ormai assolutamente più nulla e con un salario minimo non è possibile comprare neanche un pollo. Ormai è ordinario in Colombia vedere Venezuelani ai semafori che vendono caramelle e ragalano bolivares (moneta del Venezuela), “prendi, ormai non servono, puoi fare la collezione” ti dicono.
Nella mia fila, un sacco di turisti, impazienti, borbottanti, questi venezuelani hanno rovinato i piani della loro vacanza perfetta, che cattivoni! Per ingannare il tempo un paio di selfie e partite a carte. Ci dividono 10 cm dalla fila di Venezuelani ma sembra un abisso, la mancanza di empatia fa sembrare le due file mondi paralleli, uno fatto di zaini “Quechua” e vestiti tecnici (manco viaggiare in America Latina facesse di te Mesner) e dall’altro coperte, biberon, panini, pianti, spintoni.
Io cerco di chiacchierare con i vicini colombiani e venezuelani, “quel porco di Maduro ci ha ridotto così”, “povera gente”, “sono in fila da due giorni”, “fa un freddo cane”, “a quanto sta il pesos”. Mi dimentico del peso dello zaino, avanzo lentamente con il resto, sono passate due ore e abbiamo fatto 5 metri.
Le urla si fanno sempre più forti, non aprono i cancelli da un bel po’ e la pazienza mette a dura prova anche i più tranquilli, il mio vicino di coda è un peruviano esperto di orchidee, è appena stato in Colombia alla “feria de las flores” di Medillin, parliamo di agricoltura, di amore per la natura, ci proviamo a distrarre, a non pensare al freddo e alla situazione che ci circonda.
Arrivano le telecamere, a filmare le tende sotto cui stanno i venezuelani aspettando di passare, aspettando un timbro che chissà quando arriverà, per poter ricominciare, per poter sperare.
Arriva anche la Croce Rossa, con tisane calde e zuppa, che iniziano a distribuire a un’ennesima fila. C’è chi sulla frontiera ha trovato il proprio lavoro temporaneo, ogni 30 secondi si sente gridare “caffè”, “sigarette”, “panini”, “guanti”, “coperte”. Ci saranno 5 gradi e i piedi iniziano a congelarsi nel converse rosse che sbatto sul cemento.
C’è chi di lavoro porta le valige da un lato all’altro, “mi dai quanto vuoi, lascia che ti aiuti”.
Una soffiata di alcuni vicini mi avvisa che c’è una nuova coda, solo per i colombiani, penso che ho la carta d’identità colombiana, ci provo. Saluto i miei vicini e mi metto di nuovo in coda. Passano 15 minuti e già siamo dentro, guardo alla mie spalle il serpente-fila, mi viene da piangere.
Una signora che ha appena spintonato e litigato con un’altra per entrare, appena dentro mi dice “Che scorretti questi venezuelani eh??”, “Dopo tre giorni di fila non so cosa farebbe lei”, le rispondo seccata e con due occhi che non lasciano dubbi.
Timbro, taxi, pullman e eccomi a casa, dopo 4 ore e mezza di coda e due di viaggio. Ad abbracciarmi il mio coinquilino venezuelano, a cui racconto dell’orrore della frontiera, del freddo a cui devono resistere i suoi connazionali, delle urla e gli spintoni.
Non sono mai stata in Venezuela ma è come se la conoscessi per i suoi racconti, le sue spiagge paradisiache, le sue cascate, le sue città trafficate, il suo rum, le arepas, il suo sogno di un sistema diverso, che è crollato come Lego, il petrolio, quell’accento inconfondibile con cui si parla spagnolo.
Mi chiedo cosa posso fare, sento la necessità di aiutare, di capire. Forse scrivere non servirà a nessun venezuelano che sta scappando e lasciando la sua famiglia, che ha fame e freddo e che spera in un futuro migliore, ma è il mio contributo, per quella mamma che stava allattando suo figlio sotto una coperta di pile, per quel signore che vende le mele e i guanti, per quel gruppo di ragazzi che sta arrivando a piedi fino a Quito e per tutti i camerieri, gli operai, le donne delle pulizie, che prima erano dottori e ben pagati.