Caro M. – una lettera per te dal nostro movimento e dalla rete WeCare
Caro M.,
siamo lɜ ragazzɜ di Boves. Sabato sera abbiamo letto la lettera che ci hai scritto, durante la fiaccolata che facciamo ogni anno in memoria dei caduti della Resistenza. Dopo quattro giorni di approfondimenti, confronti e discussioni sul carcere, ci ha molto colpiti ed è arrivata dritta ai nostri cuori.
Forse saremo meno chiarɜ noi, che in cento proviamo a rinchiudere tutti i pensieri in una lettera sola. Quello che leggerai sono spunti dall’assemblea finale: non hai potuto esserci ma se chiudi gli occhi per un attimo forse puoi immaginarti in mezzo a noi la domenica mattina, un po’ stanchɜ e accaldatɜ, ma con la voglia di parlare e ascoltare; forse questa lettera ti potrà portar un po’ fuori da lì a sentire le parole che abbiamo scelto di rivolgerti. La tua lettera ci ha portati da te, senza averti mai visto né conosciuto: confidiamo che la nostra possa far lo stesso. Poi ci sono tante altre cose che dovremmo e vorremmo dirci, ma è un bene: sarà motivo di scriverci ancora, e di incontrarci di persona quando sarai uscito.
Allora immaginati in mezzo a noi, immagina che abbiamo appena raccontato divisɜ in gruppi cosa vorremmo fare “nelle nostre ore di libertà”, il titolo del nostro campo, noi che abbiamo il privilegio di essere liberɜ ora, di decidere come spender il nostro tempo. Immagina poi che uno a uno ci alziamo, prendiamo un po’ tentennanti il microfono, e a poco a poco aggiungiamo parole e pensieri (anche) per te. Li abbiamo lasciati scritti nell’ordine in cui son emersi, sperando che tu possa apprezzare la sincerità più che l’ordine o la forma di questa lettera.
“M., hai mai giocato a rugby? Dovremmo tuttɜ comportarci come nel rugby nella vita, che purtroppo o per fortuna non è solo un gioco. Nel rugby nessunǝ viene lasciato indietro e la palla si passa all’indietro per far meta, ma chi è indietro deve venire avanti, altrimenti la palla non avanzerà mai. Un’altra regola del rugby è il sostegno: chi porta palla viene placcato, cade e poi difende la palla col proprio corpo. Lɜ compagnɜ si gettano nella mischia e fanno sostegno al compagnǝ che si sta sacrificando, condividendo il sacrificio. La solidarietà è quella cosa che accade in un momento e che amplifica un sacrificio personale.
M., la conosci “Canzone per Alda Merini” di Vecchioni? Dice che per esser felici “basta vivere come le cose che dici, che bisogna trasformare le parole in scelte di vita, e questo è vero tanto quanto è difficile! Sappiamo che dobbiamo rimettere al centro le relazioni positive e sane tra le persone, e mantenere uno sguardo plurale, senza la presunzione di avere capito tutto. Solo così potremo trasformare la realtà. Anche questo è vero tanto quanto è difficile e poco diffuso.
M., abbiamo capito che parlare di carcere vuol dire parlare soprattutto di ciò che c’è fuori dalle mura. Sia in un’ottica di prevenzione (come si evita? perchè alcune persone ci finiscono?), ma anche perché le persone detenute, una volta libere, non debbano riabbracciare un modello/una società che non funziona, non siano costrette alla criminalità. Non tuttɜ noi lavoreremo nel mondo del carcere ma possiamo tuttɜ impegnarci nella trasformazione della società, per fare in modo che tuttɜ, indipendentemente da dove sono natɜ, dalla propria famiglia, dalla propria ricchezza, possano avere diritto a una casa sicura in cui crescere, che possano studiare e lavorare e non siano costretti alla povertà o alla criminalità.
Abbiamo anche capito che il carcere obbliga a fermarsi, e che l’isolamento e l’immobilismo fisico possono esser terribili e chissà come stai vivendo questo momento. E forse questo isolamento e questo immobilismo servirebbe più a noi qua fuori, che possiamo provare ad imparare qualcosa e a fermarci e prenderci un momento per riflettere di come stiamo spendendo il nostro tempo e in che direzione stanno andando le nostre vite e il nostro mondo. Speriamo che tu possa almeno prenderti del tempo per lavorare su di sé e sulla persona che vuoi essere. Noi dal canto nostro, ci impegniamo per te a fare la nostra parte per il momento in cui uscirai!
M., siam contentɜ che tu ci abbia scritto perché le tue parole hanno acceso una luce sulle persone detenute e rese invisibili e sull’ingiustizia della realtà giudiziaria. Sforziamoci insieme di tener le luci accese, di non arrenderci all’impotenza, di trasformare questa indignazione in scelte e cambiamenti. Molti di noi sono impegnatɜ in studi e attività educative, e crediamo sia indispensabile che in carcere ci siano più educatori e più mediatori, che si aprano le porte e che tuttɜ possano vedere che cosa la nostra società sta producendo.
Inoltre abbiamo capito che non è giusto costringere le persone detenute a vivere in condizioni strutturali ed igienico-sanitarie pessime e non dignitose! Dobbiamo continuare a batterci perché le carceri diventino luoghi in cui si può vivere e non solo sopravvivere. Sai, in questi giorni abbiamo raccolto le firme per un referendum per l’abrogazione della legge sull’autonomia differenziata. Questa legge vuole dividere l’Italia, differenziare l’accesso a diritti, servizi e possibilità a livello regionale, in base al gettito fiscale incassato dalla singola Regione, anziché redistribuire la ricchezza sul territorio nazionale. Vogliamo che le carceri d’Italia (e d’Europa, e del mondo!), se proprio devono esistere, fintanto che esistono, siano tutte all’altezza del loro compito rieducativo, ma prima ancora vorremmo che la ricchezza e serietà di un percorso educativo che accoglie e accompagna un ragazzǝ nella società non debba dipendere dalla fortuna di trovarsi in questa o quella Regione o parte del mondo, dalla fortuna di incontrare qualcunǝ di un po’ più sensibile sulla sua strada. (w la scuola, la scuola pubblica! il vero investimento sulla sicurezza!)
M., tu parli di un contesto detentivo (e non solo?) in cui non puoi fidarti di nessuno e dove qualcuno vuole sempre qualcosa in cambio. Allora, la fiducia è una postura fondamentale: dobbiamo essere in grado di darla autenticamente, anche quando ci sembra più difficile. Ce lo hanno detto anche in questi giorni: è sbagliato parlare di reinserimento nella società, se la società è corrotta e governata dagli stessi sentimenti e fenomeni che però poi sono criminalizzati in carcere: la competizione spietata, l’avidità e l’egoismo, la sfiducia nel prossimo. Alcuni reati ci mettono molto in difficoltà, sono terribili e disumani, e purtroppo la maggior parte delle persone crede che sia utile rinchiudere e “buttar via la chiave” ma sappiamo che è solo un modo per sfuggire dalla realtà, per distanziare ciò che in realtà è più vicino a noi e normalizzato nella nostra società di quanto siam capaci di ammettere.
M., vorremmo anche consigliarti un libro, si chiama “Alba” di Demirtaş. Lo scrittore è il leader di un partito le cui idee hanno molte affinità con le nostre idee. Lui è in carcere e, da dentro, scrive. Se vorrai leggerlo… E un ragazzo curdo che abbiamo conosciuto qualche anno fa ci aveva consegnato una frase al termine della fiaccolata: “Resistenza è vita”. Ti auguriamo di trovare la tua forma di resistenza, anche interiore, per riuscire a resistere a quello che stai vivendo, e di trasformare il tempo in un sogno e un senso verso cui tendere.
E M., un’ultima cosa: abbiam ripetuto il tuo nome così tante volte perché oggi per noi il carcere non è più qualcosa di astratto, ma ha un nome e speriamo presto anche un volto. In questi giorni abbiam riflettuto molto del fatto che molti fenomeni e fatti che accadono nelle cronache appaiono come distanti, astratti, quasi irreali, ma nella realtà dietro ognuno di questi ci sono persone, storie, vite, ognuna delle quali meriterebbe pari dignità e memoria. Siamo stati a Borgo San Dalmazzo, a visitare MEMO 43-45, un percorso che a partire da una ricerca storica di oltre vent’anni racconta le vite delle più di 800 persone di origine ebraica che arrivarono lì e una parte delle quali fu da lì deportata ad Auschwitz. (chissà sarebbe bello andarci insieme!) Le cose più terribili, nel 43 come oggi, dall’Ucraina alla Palestina al Mar Mediterraneo, alle periferie di Torino, succedono quando i fatti vengono disumanizzati, inariditi, e chi è coinvolto non viene considerato più un essere umano, o un essere umano un po’ meno importante degli altri. Dobbiamo tenere duro e non permettere che accada M.! Grazie per averci permesso di dare un nome in più a cui pensare, a cui far riferimento nelle nostre ore di libertà! A presto!”
Il movimento di Acmos e la rete WeCare