Barriere
Troy Maxson (D. Washington) è un netturbino che vive a Pittsburgh negli anni ’50: ha due figli, avuti da due donne diverse, una delle quali è sua moglie Rose (V. Davis), il fratello Gabriel che dopo la guerra e una placca nel cervello è ormai un pazzoide. Troy ha un rapporto difficile coi due figli: Lyons, il più grande, che cerca di suonare jazz, quando il padre preferisce il blues; Cory che gioca a football, mentre il genitore praticò il baseball. Troy rincasa spesso, soprattutto il venerdì che è giorno di paga, con l’amico di una vita Jim Bono: insieme si fanno una bevuta e parlano. Cioè, per lo più parla Troy: sì, perchè Troy è un istrione, ciarliero, divagatore, sornione e irresistibile, con il gusto dell’aneddoto e dell’iperbole, che non si sa mai dove comincia lo scherzo e finisce la storia vera. O viceversa. Ma Troy è anche inflessibile, ingessato nei suoi schemi, a tratti collerico e autoritario, di sicuro deciso ad avere sempre l’ultima parola, che si tratti del suo lavoro, dei figli o del fratello demente. In questa cornice, dove le barriere del titolo alludono forse allo steccato che Rose chiede al marito di costruire, ma forse anche alla metafora dei recinti mentali e all’irrazionale desiderio di Troy tenere tutti con sè, progressivamente i demoni mai sopiti, le contraddizioni irrisolte, i nodi mai sciolti verranno a galla, costringendo i protagonisti a un confronto serrato e doloroso.
Terza regia di Denzel Washington, forse l’attore americano di colore più noto e quotato in circolazione, “Barriere” è tratto da un testo teatrale di August Wilson, premio Pulitzer nel 1983 e portato in scena a Brodway nel 2010, dagli stessi attori. A tratti ricorda Tennessee Williams, ma soprattutto Arthur Miller, dove in una versione afro del sogno americano, Troy Maxson non è troppo diverso dal commesso viaggiatore Willy Loman, con le sue nevrosi e la sua fragile vulnerabilità. Film molto parlato, con due interpreti d’eccezione: Viola Davis, in particolare, è straordinaria nell’essere lo specchio del marito, giocando di rimessa di fronte alla sua vulcanicità, e si è meritata un Bafta, un Golden Globe e un Oscar. Forse un po’ prolisso in certi passaggi e ridondante nel finale, ma si sente lo sguardo sincero di fondo e si può perdonare i piccoli difetti.