Una speciale normalità

L’aria della mattina è fredda qui a Pasto, in una Colombia lontana dall’immaginario di spiagge caraibiche, questa è la Colombia delle Ande, delle gigantesche madri, che osservano passare il vento gelido, la pioggia forte, il sole cocente e il passo dei propri figli, indigeni, meticci e afro-colombiani.

 

Tra queste montagne ho la fortuna di immergermi ogni giorno, lavorando con comunità di contadini sparse in angoli di terra a 2000-3000 metri di altezza.

 

Domenica scorsa ho avuto un laboratorio di comunicazione con una delle associazioni di contadini che vive in una zona calda, dai panorami mozzafiato. Un canyon a strapiombo su un fiume che collega l’Ecuador alla Colombia, distese di caffè, fagioli, banane, odore di camino e mucche per la strada.

 

Dopo quasi due anni di lavoro nella Asociacion para el Desarrollo Campesino, la Ong per la quale occupo di comunicazione, so come muovermi per le strade sterrate delle campagne e come arrivare preparata a un laboratorio.

 

Una delle cose più importanti di cui non dimenticarsi è il cibo, per ogni tipo di riunione prevista infatti, è necessario garantire almeno un caffè con pane, che aiuta la convivialità, garantisce una pausa per distrarsi e due risate. Per i laboratori di tutto il giorno invece si compra la carne, che non tutti possono permettersi di mangiare spesso.

 

Vado in macchina, un pic up rosso con il cassone di legno, che mi piace da matti guidare e nel quale mi piace da matti mettere musica italiana e cantare. La prima sosta è il mercato, compro la papaya per fare il succo, dell’insalata e del caffè. Continuo con la carne e il pane, nei negozi dove ormai la mia faccia è nota. Per ultimo il mangime per le galline, che è giusto mangino anche loro.

 

Riempita la macchina di cibo, si riempie di persone, che passo a prendere addentrandomi nelle campagne e suonando il clacson perché escano. Siamo 5, loro hanno dai 60 anni in su e, nonostante siano tutte signore, mi fanno battute sulle donne al volante, una rarità in campagna, dove in generale scarseggiano le macchine.

 

Arriviamo nella sede dell’associazione, una riserva naturale con orto, animali, salone per le riunioni, cucina e stanze per dormire, con un nome in quechua, rivendicativo delle radici della zona, “Nucanchy”, “Il nostro”.

 

Il laboratorio è con bambini, adolescenti e adulti; con questi ultimi ci siamo dati l’obiettivo di scrivere la storia dell’associazione per poi poter girare un video in cui raccontarla. Mentre ai più piccoli do il compito di costruire i mezzi di comunicazione che più usano, con del cartone, dello scotch e dei pennarelli, con gli adulti ci sediamo comodi e iniziamo a chiacchierare del passato.

 

La conversazione si fa interessantissima e nel giro di un’ora ricostruiamo la storia della comunicazione nella zona. “Ricordo quando non c’era l’elettricità, avevamo delle lampade a petrolio che ti sporcavano tutta la faccia”, “L’energia elettrica è arrivata qui solo nell’81 e ha cambiato completamente la nostra quotidianità, prima si facevano solo le feste di giorno, muoversi di notte era complicato e si andava a dormire prestissimo”.

 

Nel 1981. Sette anni dopo sarei nata io, che scrivo su un computer portatile, parlo al cellulare, ho vissuto un’infanzia di cartoni animati e playstation. Un abisso che si è colmato a una velocità straordinaria.

 

Come tutti gli anziani, anche i contadini con cui parlo sono nostalgici e pensano che “era meglio prima”, “che adesso i giovani sono fortunati e non lo sanno, che c’avessero avuto loro queste opportunità”. Passiamo a parlare di musica, “Prima si facevano concerti solo con la chitarra, le maracas e dei tamburi, si contrattavano i musicisti per fare le serenate alle fidanzate, mi ricordo quando ne hanno fatta una a mia sorella, è stato un momento emozionantissimo”

 

Con una curiosità che cresce ad ogni racconto, chiedo ai miei interlocutori come facessero a sapere delle riunioni e degli eventi prima che ci fossero i telefoni, “C’era il “policia de loma”, un signore che faceva il giro di tutte le case per avvisarci”.

 

“E i giornali? Li leggete?”, “No, qui in campagna non arrivano, solo nel “pueblo” più vicino si trovavano e si trovano ancora oggi”, “No, non li leggevamo, era una cosa da ricchi, ricordo che costavano 1 centesimo e che li compravano solo i padroni”.

 

“Però c’era la radio per ascoltare le notizie, ascoltavamo anche le novelle, essendo vicini, ci sintonizzavamo anche sulla radio ecuadoriana, c’era un programma che mi piaceva tantissimo, si chiamava “La Sarakay”.”

 

Ringrazio la fortuna di poter parlare con Mercedes, Aura, Ernestina, Carlos, Cecilia, Jorge, mi proiettano in un passato mai vissuto, in una terra che ancora adesso conserva una distanza dall’orribile modernità cittadina che abbiamo importato dall’occidente, sicuri che lo sviluppo avesse, non solo una ragione d’essere ma anche un’unica possibile direzione.

 

“Per parlare con i parenti lontani andavamo fino al pueblo, c’erano file lunghissime per poter inviare delle lettere con il telegrafo, così si fissavano degli appuntamenti telefonici, poi si facevano lunghe file per ricevere le chiamate, bisognava sempre sperare di non arrivare troppo tardi”. Una chiamata implicava anche un giorno intero di viaggio, camminando dalla campagna al centro urbano, nelle speranza che non fosse un “giro a vuoto”.

 

“Ma quando è arrivata qui la televisione?”, “Secondo me più o meno nell’86, ricordo che la prima in bianco e nero l’ha portata mio marito da Medellin, tutti i vicini venivano da noi a vedere le novelle e a volte non c’era spazio per tutti”.

 

“Io mi ricordo che andavamo a vedere la boxe fino al pueblo, era un evento imperdibile!”, “A me piacevano “Destinos Cruzados” e “La Brigida de paredes”, non mi perdevo neanche una puntata”.

 

Siamo passati dalle lanterne nella notte al plasma dei televisori, a quanto è caro l’abbonamento al digitale, 30 anni di rivoluzione, che continua a non implicare una buona e diffusa informazione, come in tutto il mondo. Ci arrabbiamo tutti insieme nel concludere che l’informazione si paga e troppo, che dovremmo avere il diritto di sapere, che un popolo ignorante è comodo.

 

Nel pomeriggio facciamo un esperimento. Nella sede ci sono 10 computer, in ogni postazione faccio sedere un adulto con un giovane, così che i più piccoli possano far vedere ai “mayores” come funzionano. Alcuni hanno già provato a scrivere con una tastiera, altri no. Gli chiedo di scrivere il ricordo più bello che hanno e la cosa più divertente che gli sia successa.

 

Tra le 20 storie quella della signora Ernestina sicuramente è la migliore “Mio padre stava finendo di lavorare in una piantagione, doveva tornare verso casa con un altro ragazzo e ha deciso di fargli uno scherzo. Si è messo addosso una botte per dare da bere alle mucche, gli arrivava fino alle ginocchia, poi si è nascosto. Quando il suo amico è arrivato si è alzato di colpo e l’altro dallo spavento l’ha ferito con il machete che portava con lui. Mio padre è arrivato a casa sanguinante e arrabbiato ma io e i mie fratelli non riuscivamo a smettere di ridere”.

 

Finito il laboratorio, riporto tutti  a casa, siamo 20 su una macchina, tutti i bambini dietro nel cassone e i più anziani con me nell’abitacolo. Mentre torno verso Pasto penso a quanto la normalità delle mie giornate sia speciale, ai volti, le storie, le mani rugose di chi zappa la terra e accoglie con il sorriso una giornata per pensare al passato e imparare, ancora.

08/08/2017
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