Spugna

Metto in un sacchetto i vestiti sporchi di terra, poso gli stivali ancora umidi, mi godo un caffè della moka sbuffante.
“E tu come stai?”, quando mi arriva un messaggio dai miei amici lontani mi viene da rispondere sempre nella stessa maniera: “stanchissima ma felice”. E non mento, sono felice, sono emozionata da ciò che succede intorno a me, mi sento una spugna che ogni giorno cerca nuova acqua con cui gonfiarsi.

La settimana scorsa, la mia acqua, è stata il “corso di formazione integrale”, che abbiamo portato a termine nella sua quarta e ultima sessione. Per abbiamo, intendo come equipe della Ong per cui lavoro, nel sud della Colombia, a Pasto.
Una settimana intensa, vissuta in una delle sedi della Ong, dotata di camere da letto comunitarie, salone per i corsi, cucina, orto, maiali, galline e cuy, dei simpatici cricetoni.

Tornare a casa, tirare le somme, raccogliere le foto, i video, le emozioni. Tra la paura prima di iniziare un laboratorio, l’allegria delle risa vedendosi vestiti da dottori a produrre crema di calendola, le lacrime dell’ultimo giorno, sono tante le cose ad avermi emozionata, mossa, riempita.

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(Laboratorio di trasformazione della calendola)

Il corso è diviso tra teoria e pratica, un po’ come il mondo. La prova più difficile, per quel che mi riguarda, è stata vaccinare un maialino. Hanno la pelle durissima e solo al secondo tentativo sono riuscita nell’intento.

Essendo nel “gruppo maiali”, mi sono occupata insieme ai mie due compagni, di preparagli la colazione e la cena tutta la settimana. Una cosa straordinaria. Un sistema costruito per essere completamente autosufficiente, permette che la materia organica degli stessi animali venga parzialmente ripulita da un biodigestore, per poi passare in delle pozze d’acqua. Dentro le 7 vasche presenti, crescono due specie di piante, con le quali si alimentano i maiali, le galline e i cricetoni.

Con una cariola, scendevo tutte le mattine alle pozze, per fare il carico di piante, da ripulire meticolosamente e servire agli affamati maiali. Dimentico presto che fosse materia organica, mi piaceva più pensarlo come un piccolo e ingegnoso miracolo agroecologico.

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(Le vasche di piante acquatiche) 

La routine della scuola prevedeva una colazione a dir poco abbondante ma giusta, per lavorare la terra: riso, uovo strapazzato o fritto, patata bollita e platano fritto. A seguire ci si divideva in “gruppo galline”, “gruppo orto”, “gruppo maiali” e “gruppo cuyes”, per imparare a vaccinare gli animali, nutrirli, pulirne le “case” e per sistemare e ampliare la produzione di verdura e piante aromatiche.

A seguire, una meritata doccia fredda, con caldo fuori. La teoria si è messa in pratica attraverso laboratori di “sviluppo a scala umana”, interculturalità, organizzazione delle associazioni e delle cooperative, giornalismo, economia solidale, alfabetizzazione digitale e laboratori di scrittura e lettura.

Approfittando di quest’ultimi, abbiamo incentivato i partecipanti a scrivere dei dialoghi basati su tre situazioni, che poi avremmo messo in scena davanti alla telecamera per girare dei cortometraggi.
“L’autolavaggio internazionale”, “Il gioco della vita” e “Dal monocoltivo all’orto biodiverso”, questi i titoli delle pillole nate dalla fantasia degli alunni e dalla registrazioni mie e del mio collega Ruben.
Si sono dimostrati tutti ottimi sceneggiatori e attori.

Due sono le cose che mi hanno colpita nel fare questo esercizio:
-l’assoluta assenza di dubbi sul mettersi in gioco o meno, il ridere di se stessi, l’aver voglia di tornare un po’ bambini.
-questo “tutti” è composto da 13 contadini dai 20 ai 70 anni, uomini e donne, di differenti zone del Nariño, la regione in cui mi trovo. Dopo 4 sessioni da una settimana, sono riusciti a creare un gruppo che si spalleggia, che appiana le differenze (soprattutto d’età) e che ha una costante voglia di imparare, l’uno dall’altro o dai “profes”.
Dalla prima sessione, in cui la timidezza la faceva da padrona, sono stati fatti dei passi da gigante, come loro stessi hanno appurato “La telecamera non mi fa più paura” , “Giulia ci fai una foto?” , “D’accordo, facciamo un altro video!” e io, che odio stare dall’altra parte dell’obbiettivo, non ho potuto che guardarli con piena ammirazione.

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(Girando “El lavadero internacional” )

Zuppa, patate e riso, difficile manchino a pranzo o a cena qui in Colombia, mangiare sotto il porticato tutti insieme, scambiandosi domande, sorrisi, passandosi il sale o l’aji, una salsa piccante di cui non posso più fare a meno.
E poco a poco, non sei più la “strana”, “l’italiana”, sei parte di un gruppo che sta tessendo percorsi di pace attraverso la formazione e lo scambio con contadini sempre più padroni, non solo del loro cibo ma anche del loro destino.

L’ultima mattina mi alzo con un po’ di tristezza e un po’ di agitazione. E’ il giorno delle lauree, so che forse alcuni non potrò più incontrarli, alcuni li ho aiutati a preparare le presentazioni per l’esposizione davanti a famigliari e prof, fa strano pensare sia finita.

Fanno un ultimo laboratorio gestito da una tostissima donna dell’Università Javeriana di Cali, è difficile tenere le lacrime, quando tutti bendati in giardino si abbracciano, si confessano, si emozionano.

 

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(Laboratorio di intercultura)

Con il pulmino dell’associazione arrivano i parenti portati di sorpresa, perché assistano alle presentazioni dei propri cari. Sono tutti ben vestiti, gonfiamo i palloncini, ci accomodiamo tutti nel salone per iniziare.

Uno dopo l’altro, presentano video, foto, cartelloni, quaderni. E uno dopo l’altro vengono chiamati a ritirare i diplomi, che inaspettatamente sono stati preparati anche per noi.
Tra tutti, Rita, una indigena della mia stessa età, è quella che ci regala un’esposizione tra le più toccanti. Ci spostiamo tutti in giardino e inizia a leggerci un’intervista fatta tempo prima al partecipante del corso più anziano, esempio per molti. Lui inizia a piangere per la dedica, per aver trovato una nuova amica.
Un cerchio di fiori, riso, pietre e scritte steso sul prato, rappresenta tutto quello che anche lei, da brava spugna, ha assorbito e restituito alla sua comunità di appartenenza.

La voce prima si fa sottile, poi si rompe in un pianto. E non è agitazione, è avercelo nello stomaco quello che si sta tirando fuori con le parole. E’ sentire che si stanno cambiando delle cose, che anche il proprio pezzo è fondamentale. Le do una carezza sulla spalla mentre passa, sarei una pessima professoressa, ho sempre dei preferiti, Rita è una di quelle.

E che belle le parole di Chiara, la mia compagna di avventure “Da parte mia e di Giulia, volevo ringraziarvi, perché abbiamo imparato tantissimo da voi in queste settimane. Siete la dimostrazione che un cambio è alla nostra portata, con le piccole azioni di ogni giorno. Siete la dimostrazione che non è mai tardi per realizzare i propri sogni. Speriamo di poter essere un piccolo ponte tra il vostro esempio così valoroso e le nostre comunità in Italia”.

Una spugna, di acqua, di lacrime.

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(Chiara e i partecipanti del corso)

22/04/2016
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