Il ruolo della Chiesa nella diffusione della mafia

Anche la Chiesa è peccatrice. L’Istituzione ecclesiastica, come ogni organizzazione, è composta da uomini che possono sbagliare, contraddirsi o – perfino – andare contro ai precetti che dovrebbero seguire con rigore morale.

Vi riportiamo alcuni episodi che raccontano la vicinanza di determinati membri dell’Istituzione “Chiesa” all’agire mafioso. E’ una parte, ed una parte minoritaria. Sappiamo quanti uomini di Chiesa hanno e continuano, anche rischiando la vita, a contrastare il crimine organizzato. Ma parlare di quelli che sbagliano non vuole essere il modo per condannarli tutti. Anzi..

La diffusione della mafia ha origini lontane ed è stata provocata dalla convergenza di una pluralità di fenomeni. Tra questi si può sicuramente annoverare l’atteggiamento connivente di un esigua minoranza della Chiesa meridionale. Secondo alcune testimonianze, raccolte nell’”Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia”(1875-’76) (testo conclusivo della commissione parlamentare istituita nel 1875 dal governo Mughetti) tali frange già nel corso del XIX secolo avrebbero diffuso la cosiddetta Bolla di Componenda.

Questo documento consiste in un vero e proprio tariffario distribuito dagli istituti religiosi per consentire alle persone di avere facile accesso alla remissione dei peccati, in cambio di un prezzo prestabilito. Pratiche di questo tipo, sulla cui diffusione non c’è totale concordia tra gli storici, hanno comunque prodotto degli strappi gravissimi nella coscienza civile meridionale e sono stati fonte di grande ispirazione per il potere mafioso.

Ma non solo per questo si può dire che alcuni esponenti ecclesiastici abbiano rinunciato storicamente al proprio ruolo di guida etica e sociale nei confronti del popolo meridionale: non si è mai assistito infatti all’estromissione o alla scomunica di mafiosi, ai quali invece, in cambio di larghe elargizioni in denaro, si è concesso di celebrare eventi in pompa magna, come matrimoni e funerali. Tale atteggiamento è derivato nel tempo dalla mancanza di nozione e reale consapevolezza del problema mafia, oltre che dalla volontà di non contrapporsi alle forze che si opponevano all’avanzata del partito comunista.

Ancora negli anni ’60 il cardinale di Palermo Ruffini retrocede la pericolosità del fenomeno a problema di ordine pubblico, ingigantito dai comunisti per indebolire la DC (ricordiamoci che siamo in un periodo in cui “mafia” è un concetto dai contorni non ancora ben definiti). Al di là di questi atteggiamenti di più o meno interessata sottovalutazione, ci sono poi sparuti esempi di consapevole contiguità e collaborazione.

Persino oggi, per quanto minoritariamente, alcuni esponenti ecclesiastici non si sottraggono dalla pratica dell’accompagnamento spirituale dei mafiosi; ne raccolgono le confidenze e arrivano a far loro da tramite per la gestione delle relazioni esterne. Utilizzano l’abito talare per infondere rassicurazione e fiducia, ma sono organici all’organizzazione, spesso come veri e propri esecutori materiali di delitti o silenti organizzatori di trame oscure connesse al potere. Emblematica in questo senso la figura letteraria di Padre Cricco, tratto da “Una storia semplice” di Sciascia, del quale abbiamo scelto di proporre l’immagine cinematografica tratta dall’omonimo film di Emidio Greco, insieme a una scena altrettanto evocativa de “I Soprano”.

Tra i casi più significativi dei rapporti di complicità tra Chiesa e mafia c’è quello di Fra Giacinto, al secolo Stefano Castronovo, frate francescano anche detto “Fra Lupara”. Negli anni ’70 è tra i consiglieri di Bontade e viene accusato di aver ospitato Luciano Liggio da latitante. Fra Lupara è ucciso nella propria chiesa nel 1980, dove tiene un armadietto dentro il quale vengono ritrovate una pistola con il caricatore pieno e decine di milioni in banconote.

E’ significativa anche la storia di Don Agostino Coppola, cugino del capo di Cosa Nostra americana Frank Coppola, detto “Frank tre dita”. Don Agostino è il prete dei corleonesi ed è colui che celebra le nozze di Riina con Ninetta Bagarella, a Cinisi. Legato anch’egli alla figura di Luciano Liggio, confessore di boss importanti, è anche amministratore dei beni dell’arcidiocesi di Monreale. Un sacerdote mafioso a tutti gli effetti, condannato con sentenza definitiva per sequestro di persona e rinviato a giudizio al quarto maxi processo, poco prima di morire.

Vi sono rapporti accertati anche tra membri della Chiesa e la ‘ndrangheta. In Calabria alcuni preti sono stati colti a spacciare cocaina e portare la pistola. Esponenti ecclesiastici hanno testimoniato ai processi definendo gli imputati dei galantuomini e altri hanno celebrato funerali di boss dicendo: “chi siamo noi per giudicare il bene e il male”? Questa retorica è specchio di una concezione della fede come rapporto privatistico tra individuo, sacerdote e Dio, ma che non ha nessuna corrispondenza nella vita sociale: tutto si risolve in un problema di coscienza, che si lava volta per volta con la confessione.

Questa impostazione ha indubbiamente fornito l‘humus necessario alle cosche per insinuarsi dentro le coscienze, consentendo alle mafie di affondare le proprie radici nelle profondità dei corpi sociali del meridione, da cui poi si sono diffuse nel resto della penisola. Pur non volendo negare le responsabilità storiche di certe frange, è però giusto ricordare gli sforzi e i sacrifici, che per alcuni sono stati della vita stessa, che la Chiesa ha messo in campo negli ultimi vent’anni contro la mafia. Sarà argomento del nostro prossimo articolo sul tema.

28/05/2014
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