L’amministrazione della tortura

I desaparecidos argentini, Guantanamo, Abu Ghraib, il G8 di Genova, il caso Regeni: manifestazioni di torture come casi che ne confermano l’adattamento alla storia e ai sistemi politici. Un quadro critico complessivo sulla tortura, il suo nesso con il potere, e i ruoli che la caratterizzano – dal “più forte”, all’inerme, all’opinione pubblica – analizzato da Donatella Di Cesare, professoressa ordinaria di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, e da noi intervistata, nel libro Tortura, edito da Bollati Boringhieri.

 

Nell’analisi storica più recente del fenomeno si tende ad associare la tortura alle dittature. Tuttavia, con la scomparsa di molte di queste non è scomparsa la pratica. Come si spiega questa persistenza?
Vediamo la tortura come una pratica appartenente a epoche arcaiche, che non ci riguarda più. Perché  diamo per scontato che nelle società illuminate e democratiche non esista. Purtroppo questo non è vero. La democrazia non è una forma politica refrattaria alla tortura. Non è una condizione che la elimina. Perché anche in quei Paesi – tralasciando l’Italia dove ancora non esiste nemmeno il reato – che la dichiarano illegale e la annoverano nel loro codice penale, la tortura viene perpetrata anche se clandestinamente. Viene amministrata. C’è una democratizzazione della tortura. L’esempio più fulgido sono gli Stati Uniti. Il fenomeno della tortura si adatta al tipo di governo e alle sue esigenze. Si pensi alle posizioni politiche che dopo l’11 settembre del 2001 hanno trovato nella “guerra al terrore” il motivo per giustificarne la pratica. E non solo negli Stati Uniti. La proclamazione in Francia dello stato di emergenza a seguito degli attentati del 2016 apre un campo di illegalità in cui è permesso torturare. Perché il terrorista è considerato un individuo che si colloca al di fuori delle regole e dunque è possibile rispondere  in maniera illegale, cioè torturarlo.
A mio avviso esiste uno spartiacque politico: è chiaro che chi è disposto a torturare provoca, probabilmente senza rendersene conto, una faglia terribile nella democrazia e nella tutela dei diritti umani. Conquiste queste che non si possono mettere a repentaglio al fine di inseguire, nello stato di eccezione, il terrorista.

 

Nel suo saggio mette bene in evidenza come il tentativo di far passare oggi la tortura come strumento di difesa da rischi maggiori sia falso. Sottolinea inoltre come non sia mai andata via da forme differentissime di governo. È dunque una costante della storia umana?
Diciamo che è una forma storica che si ripresenta a seconda delle forme politiche, comprese quelle democratiche.
L’unica vera arma contro la tortura è la vigilanza dell’opinione pubblica. La difficoltà attuale è la mutazione della tortura che è divenuta una “tortura bianca”, una forma sottile di tortura che non lascia ferite, cicatrici, tracce fisiche. Ma assume forme psicologiche. È una tortura che agisce sulle angosce, fa leva sulle paure, approfitta dei punti deboli. Nel libro faccio l’esempio iniziale del carcere di massima sicurezza, presso Stoccarda, di Stammhein, dove nel 1973, furono sperimentate su tre componenti della Rote Armee Fraktion, tecniche di isolamento percettivo e privazioni sensoriali. Parliamo di luce intensa costante e uniforme, muri bianchi, cella perfettamente insonorizzata, in modo da non poter sentire neppure i suoni che i tre detenuti stessi provocavano. I tre detenuti sono morti suicidi.
La democratizzazione della tortura va di pari passo con la tortura bianca: più si insinua nella democrazia più tenta di non lasciare traccia.

 

Cosa vuol dire per uno stato democratico ammettere la tortura istituzionalizzata?
Cedendo diritti per ottenere sicurezza si entra in una spirale. Apparentemente si ha più sicurezza ma in realtà gli stessi cittadini in cerca di quella sicurezza potrebbero trovarsi “nelle mani del più forte”. E non soltanto in una stazione di polizia ma anche in un ospedale psichiatrico o un ospizio. Si può diventare vittime della stessa necessità di sicurezza. È bene sempre essere consapevoli di questo rischio.

 

Nel libro mette in rassegna numerosi episodi di tortura. Alcuni anche riconducibili alle forze dell’ordine, che nell’utilizzo della forza, affidatogli dallo Stato, abusano del loro potere, tradendo lo stato di diritto. Come si rimargina una ferita così profonda nel tessuto sociale?
Sappiamo che la polizia è sovrana, detiene il monopolio della violenza. Questo comporta un’ambiguità: da una parte deve esercitare il monopolio della forza, a difesa dei cittadini, e può incorrere in abusi; dall’altra avrebbe l’obiettivo di ricercare gli abusi, di impedirli. Nel caso le due volontà si incrocino, chi trattiene i detentori della forza dall’abusarne, dal violare i corpi dei cittadini, se sono loro stessi in seguito a risponderne? Ecco perchè le organizzazioni umanitarie svolgono un ruolo di primo piano insieme all’opinione pubblica.
Nel caso dell’Italia, sono convinta che l’introduzione del reato di tortura proteggerebbe gli agenti dal commettere abusi. Ora, senza il reato, amnesia e amnistia sono un grave pericolo.
In questa ambiguità si sono verificati episodi gravissimi; il più grave di questi è il G8 di Genova per cui  l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per i diritti umani.
Occorre una riflessione. Purtroppo da noi la tortura non è un tema del dibattito pubblico. Non c’è un coinvolgimento dei cittadini. Se ne parla troppo poco, in termini spesso iperspecialistici (solo, ad esempio, intorno alla legge che dovrebbe essere introdotta) oppure in termini demagogici.
I traumi del passato, le ferite, si curano col dibattito.
L’Italia, non avendo introdotto nel codice penale il reato di tortura, è fuori dai criteri dell’Unione europea. Il testo, attualmente bloccato in Parlamento, ha dei grossi limiti e andrebbe modificato. Non basta, però, solo introdurre il reato per risolvere il problema. È una condizione necessaria ma non sufficiente.
Il mio libro vorrebbe essere uno stimolo per la riflessione complessiva.

16/12/2016
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