La corruzione italiana, una “selezione alla rovescia”

 

Di Leonardo Ferrante e Toni Castellano

“Il diffondersi delle pratiche corruttive mina la fiducia dei mercati e delle imprese, scoraggia gli investimenti dall’estero, determina quindi, tra i suoi molteplici effetti una perdita di competitività del Paese” scrive Mario Monti nella Rapporto sulla corruzione in Italia che verrà presentato il 22 ottobre prossimo a Palazzo Chigi. “La lotta alla corruzione è stata assunta come priorità del governo”. Di fronte al dilagare dell’illegalità del sistema di corruttela e al moralmente ripugnante che si nasconde spesso dietro leggi imprecise, le Edizioni Gruppo Abele hanno creduto opportuno pubblicare l’Atlante della corruzione. Il lavoro è firmato dal prof. Alberto Vannucci, docente di Scienza politica e direttore di un Master sui temi dell’antimafia e dell’anticorruzione presso l’Università di Pisa , che da anni si occupa di studi e ricerche sul fenomeno. A lui abbiamo posto alcune domande.

Spesso quando si discute di corruzione non si hanno le idee chiare a riguardo. Questo può rendere difficile prevenzione e contrasto del fenomeno. Può dirci qual è la natura intima della corruzione? Ossia, quali sono gli elementi che la costituiscono da mirare per combatterla?
Ridotta all’essenziale, la corruzione è il tradimento di un mandato di fiducia per l’intervento di un corruttore. Il funzionario o il politico corrotto sono simili a un “Arlecchino servo di due padroni”. I cittadini – che sono il loro “datore di lavoro” – affidano a questi loro “dipendenti” l’incarico di curare gli interessi comuni, di tutelare il bene pubblico. I corrotti invece vendono di nascosto i loro servigi a un secondo “padrone”, il corruttore, in cambio di una tangente, monetaria o “in natura”. Questi sono gli ingredienti essenziali della corruzione, che è un gioco a tre, di cui i cittadini purtroppo ricoprono il ruolo scomodo di vittime, per giunta spesso inconsapevoli, di un tradimento che li danneggia e li impoverisce. Ma anche partendo da questo schema elementare si possono forse già immaginare alcuni possibili strumenti di contrasto. Migliorare la capacità dei cittadini – il “datore di lavoro” – di controllare l’operato dei loro dipendenti, accrescendo trasparenza e “rendicontabilità” nell’esercizio di qualsiasi potere pubblico. Accrescere l’efficacia dei controlli sulle decisioni di funzionari e politici, da calibrare sui risultati conseguiti, piuttosto che sul rispetto formale delle procedure. E naturalmente selezionare e motivare questi “Arlecchini” – i nostri politici e dipendenti pubblici – in modo da rafforzarne il “senso dello Stato”, inteso come spirito di servizio alla comunità e adesione consapevole e convinta ai valori della legalità costituzionale.

Quali leggi hanno favorito – e chi le ha promulgate – nella storia della nostra Repubblica, lo sviluppo della corruzione? Qual è il suo pensiero sulla riforma in atto?
L’elenco delle leggi e dei provvedimenti “pro-corruzione” nella storia della nostra Repubblica è troppo lungo per essere compilato per esteso, sicuramente molto più ampio di quello delle misure anti-corruzione. Limitandoci agli ultimi anni, si può ricordare lo smantellamento sistematico dei cosiddetti “reati sentinella”, quelli utili a far emergere nel corso di inchieste avviate in altri terreni la sottostante corruzione – che nessuno dei protagonisti di solito denuncia, visto che maneggiando tangenti di solito c’è molto da guadagnare. Così con concordia bipartisan maggioranze di centrosinistra hanno di fatto depotenziato i reati di abuso d’ufficio e alcuni reati fiscali, il governo Berlusconi ha messo la pietra tombale sul falso in bilancio, incidentalmente affossando anche alcuni processi che coinvolgevano il Cavaliere e suoi sodali. L’abbreviarsi dei tempi di prescrizione, di cui dobbiamo ringraziare la famigerata legge ex-Cirielli, ha prodotto effetti devastanti sulla sensazione di impunità diffusa, incidendo negativamente sul sistema di repressione penale. L’esaurirsi di un numero impressionante di procedimenti per reati di corruzione e altri “crimini dei colletti bianchi” è ritenuto da tutti gli esperti la principale ragione di inefficacia dell’azione di contrasto penale. Del resto è proprio puntando alla prescrizione che gli imputati eccellenti mettono in campo le loro migliori squadre di avvocati soltanto per allungare i processi prima del giudizio definitivo, contribuendo allo sfascio complessivo della macchina giudiziaria. La legge anticorruzione oggi in discussione presenta sicuramente luci e ombre. Si fa carico finalmente – dopo vent’anni da “mani pulite” – di una questione centrale per il nostro Paese e tenta di adeguare il nostro ordinamento ai parametri europei, ad esempio istituendo un’autorità anticorruzione, oppure introducendo i reati di corruzione privata e traffico di influenze illecito. Purtroppo questo avviene in modo inadeguato. Le pene per i nuovi reati sono così esigue da farci prevedere un nulla di fatto nella maggior parte dei processi a seguito della prescrizione, i cui tempi non sono toccati affatto. Addirittura il reato di concussione, che prevedeva una sanzione più severa per i funzionari pubblici, è stato “spacchettato”, in alcuni casi la pena prevista e quindi anche i tempi di prescrizione si riducono sensibilmente. Della nuova autorità anticorruzione poi si rincorrono ipotesi diverse, secondo l’ultima versione proposta potrà ricorrere alla guardia di finanza – in questo caso forse potrebbe servire a qualcosa, operando serie indagini patrimoniali – ma si precisa poi che sarà “a costo zero”. Allora sorge un dubbio: ma se non si investe nulla nella lotta alla corruzione, come si può sperare di ottenere un qualsiasi risultato? Insomma, la mia impressione di fondo è che si sia affrontato un tema così importante con un approccio molto burocratico, caricando di ulteriori adempimenti formali uffici pubblici già sovraccarichi e cercando maldestramente di dimostrare la buona volontà della classe politica, ma senza toccare, se non marginalmente, i meccanismi di fondo che alimentano il sistema della corruzione.

 

Qual è il nesso tra criminalità organizzata e fenomeno corruttivo?
Un legame simbiotico. Corruzione e mafia sono due fenomeni che si sviluppano assieme perché si alimentano a vicenda, come dimostrano anche le recenti vicende lombarde. Molto semplicemente, un’amministrazione pubblica e una classe politica corruttibili sono gli interlocutori ideali delle organizzazioni criminali, dal momento che permettono ai mafiosi di realizzare gli affari migliori – che spesso richiedono un impiego distorto di fondi e risorse pubbliche – senza sporcarsi troppo le mani, allacciando relazioni con i soggetti influenti nella cosiddetta “zona grigia” di connivenze e complicità con il mondo delle professioni e degli affari. Non solo: grazie alle protezioni politiche e burocratiche pagate in contanti – e alle organizzazioni criminali non difettano certo i capitali illeciti – i mafiosi possono anche allungare le loro “aspettative di vita criminale”, le loro speranze d’impunità. Del resto i mafiosi da sempre preferiscono la corruzione all’intimidazione o all’omicidio come forma di pressione sul potere pubblico. Perché “la corruzione è per sempre”. Una volta entrato a libro paga, il politico o il burocrate sono ricattabili a vita. Ma vale anche l’inverso: i rapporti tra corrotti e corruttori, o tra le imprese che si accordano nelle intese collusive per spartirsi gli appalti invece di farsi concorrenza, trovano nelle organizzazioni criminali una sponda utile a “regolare” i loro rapporti. Quando ci sono le organizzazioni criminali a garantire gli scambi tra corrotti e corruttori è molto probabile che tutto fili liscio, o che alle controversie si trovi rapida soluzione. In questi contesti – che purtroppo non sono più soltanto quelli delle regioni di tradizionale radicamento mafioso, ma sempre più spesso anche aree del centro-nord – nessuno si sogna di denunciare o di collaborare coi magistrati, nessuno sgarra, nessuno contravviene alle regole non scritte della corruzione. Basta pagare una percentuale al clan – spesso inferiore a quella che altrimenti si dovrebbe pagare a politici troppo voraci – e si ha la garanzia che tutto filerà liscio nel dare-avere delle tangenti.

 

La Corte dei conti stima il costo della corruzione italiana in 60 miliardi di euro annui. Che valore hanno questi numeri? E quali sono i costi reali della corruzione?
I 60 miliardi di euro annui calcolati dalla Corte dei conti sono utili a darci l’ordine di grandezza della corruzione, ma le modalità di calcolo sono solo approssimative. Viene applicata una percentuale del 3 % del Pil italiano, formula che – secondo la Banca Mondiale – quantifica il costo della corruzione nel mondo. E’ chiaro che questo ha una valenza simbolica e “pedagogica”, ma il costo della corruzione va ben oltre questa dimensione monetaria. La corruzione degrada ogni tipo di servizio fornito alla collettività da politici e funzionari, anche quelli fondamentali per la salute e la qualità della vita. Per questa via produce costi non quantificabili economicamente, altri diluiti nel tempo. Tra i costi della corruzione dovremmo includere le vittime di molti incidenti sul lavoro o del materiale scadente impiegato nell’edilizia – ce ne accorgiamo soprattutto in occasione dei terremoti. Ancora, si pensi ad esempio al deterioramento dei servizi e dei controlli nel settore della sanità pubblica, quando le inchieste ci mostrano che proprio le tangenti versate agli ispettori o ai primari erano la ragione di decessi evitabili. La corruzione diffusa inquina la stessa democrazia, perché premia i politici peggiori, quelli che reinvestono il ricavato delle tangenti nella competizione elettorale, delegittima le istituzioni e cancella la fiducia dei cittadini nei loro rappresentanti, anche quelli onesti. Lo stesso accade nel settore privato. Dove la corruzione è prassi corrente e via obbligata per il successo negli appalti o nelle speculazioni immobiliari gli imprenditori non investono nell’innovazione e nella ricerca, perché conviene di più curare le relazioni giuste, impiegare il proprio tempo facendo anticamera dall’assessore, dal dirigente o dal ministro. Gli effetti di questa “selezione alla rovescia” di una classe dirigente parassitaria, alla ricerca di protezioni politiche, si dispiegano nel corso del tempo. Ma la perdita di competitività delle imprese italiane, la nostra difficoltà di crescere a mio avviso segnala che un processo di questo tipo va avanti ormai da troppo tempo.

Che cosa può fare il mondo della cultura, dell’accademia e della società civile per contrastare la corruzione in Italia?
Condivido il pensiero di don Luigi Ciotti, di fronte al “coma etico” in cui versa questo paese, e di cui la corruzione dilagante non è che uno tra i molti sintomi, è necessario un risveglio civile, una rivoluzione delle coscienze. La “questione morale” sollevata dal Enrico Berlinguer nel lontano 1981 era allora ed è tuttora il centro del problema italiano, averla colpevolmente rimossa, derubricandola a preoccupazione di pochi moralisti o giustizialisti, è alla radice del disastro politico, economico, etico di oggi. Significa non capire che la questione morale fa tutt’uno con la questione politica e istituzionale che affossa il paese. Credo che il ruolo della cultura, accademica e non, e della società civile sia decisivo in questo per almeno due ordini di motivi. Il primo, naturalmente, si lega all’esigenza di una nuova consapevole mobilitazione, di una pressione dal basso per attuare finalmente le riforme necessarie. Poco si è fatto in questi anni, se si escludono campagne come quella lanciata da Libera e Avviso pubblico con la raccolta di firme presentate al Presidente della Repubblica per la ratifica delle convenzioni europee sulla corruzione. Ma in assenza di una convinta partecipazione di tutta la società civile, la classe politica ha dimostrato negli ultimi decenni di non essere in grado di reggere la sfida del cambiamento necessario, di non avere forza, capacità e credibilità per attuare quel rinnovamento di se stessa e delle istituzioni che potrebbe restituire fiducia in un sistema politico sprofondato nel discredito popolare. A questa si aggiunge una seconda motivazione. Anche se ampi segmenti della classe dirigente sono inerti o complici con il sistema delle tangenti, una nuova politica anticorruzione può nascere autonomamente nella società civile, utilizzando gli strumenti di conoscenza e di contrasto messi a disposizione da chi fa ricerca, oppure opera nel mondo dell’impresa, delle professioni e dell’amministrazione, trovandosi quotidianamente a contatto con la realtà di un’illegalità quotidiana che si è fatta legge. Esistono già “buone pratiche” scaturite da questo patrimonio di esperienza, esiste una generazione di “professionisti dell’etica” – prendo ancora a prestito un’espressione di don Ciotti – che si sono formati e hanno messo a disposizione il loro entusiasmo e le loro competenze in questa difficile battaglia per la legalità costituzionale. Condividere e valorizzare queste pratiche di integrità e buona amministrazione, far conoscere e diffondere le esperienze positive, è compito del mondo della cultura e della stessa società civile, così da permettere ai cittadini di smettere le vesti di spettatori inerti o indignati per il degrado in atto.

L’Italia di oggi quanto è lontana da quella del luglio 1992, con riferimento al discorso di Bettino Craxi in Parlamento?
La parabola italiana si riassume simbolicamente nella vicenda dell’ex consigliere regionale del Lazio Fiorito, passato dal lancio delle monetine al Craxi “ladrone” assediato dai giudici, al carcere con l’infamante accusa di peculato sui fondi pubblici assegnati ai gruppi consiliari. E’ una distanza siderale che va oltre i vent’anni trascorsi. Nel 1992, di fronte al discorso di Craxi – di fatto una confessione pubblica di come il sistema di finanziamento dei partiti avesse assunto venature criminali – nessuno nell’aula di Montecitorio ebbe il coraggio alzarsi in piedi per affermare la propria estraneità. Nel consiglio regionale del Lazio il latrocinio era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno si è sognato di denunciarlo. Insomma, la corruzione di allora, proprio come quella di oggi, introduce tossine nella democrazia anche perché alimenta alleanze sottobanco, disinnesca qualsiasi controllo reciproco, favorisce un’omertà sotterranea a prova di bomba. In altre parole, la corruzione allontana la politica dai cittadini, la rende opaca e irresponsabile. La mia impressione è che la distanza che separa quel luglio ‘92 da oggi non si rifletta in una diversa diffusione del fenomeno. La prassi della corruzione era ed è rimasta sistemica in molti snodi cruciali del nostro apparato politico e amministrativo, anche se oggi è venuto meno il ruolo di “regolazione” dei partiti politici. I protagonisti giocano una partita in proprio, con una specie di “balcanizzazione” della corruzione. Il cambiamento di clima lo si misura piuttosto guardando alla diversa reazione di fronte agli scandali. Allora ci si illudeva che la rivolta morale che accompagnava le inchieste di mani pulite potesse tradursi in un drastico rinnovamento della classe politica e del sistema istituzionale. Oggi sembra prevalere la rassegnazione, anche perché – complici molti segmenti di una società civile tutt’altro che aliena al sistema della corruzione – il frutto politico di quelle inchieste è stato un quindicennio di berlusconismo. Per questo in molti l’indignazione non si accompagna alla speranza, ma al disincanto sui possibili sbocchi della crisi in atto.

16/10/2012
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