Il coro degli invisibili

Di Simone Bongiovanni, dal Libano

Dalle pareti di teli impermeabili firmati UNHCR della nostra tenda filtrano con facilità tutti i rumori provenienti dall’esterno. Un televisore acceso, il pianto di un bambino, il pallone che rotola sulla ghiaia, gli uomini seduti davanti alla tettoia che conversano come ogni sera. È il coro di un’umanità intrappolata in un paese che non gli appartiene, senza alcuna possibilità di andare avanti, né di tornare indietro. Eppure questa sinfonia scomposta è l’unica testimonianza di un popolo di invisibili, di dimenticati: è la canzone dei profughi siriani in Libano.

 

Che viva in un campo profughi, dentro un garage o in un appartamento ancora in costruzione un siriano in Libano conduce un esistenza da fantasma. Famiglie di uomini che rischiano l’arresto ogni giorno, mogli spaventate e bambini con ben poche prospettive di futuro abitano fianco a fianco a cittadini libanesi. Un milione e mezzo di ombre nel cuore del più povero stato del medio oriente, dove il caos è diventato la normalità e le regole valgono solo per chi è più debole. Qui se sei siriano le cose più semplici possono diventare le più difficili. Gli uomini non possono spostarsi liberamene per via dei check point sparsi sulle strade principali. Trovare un lavoro e molto difficile, tenerlo lo è ancora di più, dal momento che in qualsiasi momento si può essere licenziati senza alcuna sorta di garanzia. Non è possibile accedere alla sanità pubblica, perciò se diventa necessario avere delle cure bisogna rivolgersi a cliniche private dai costi spropositati. Una quotidianità intangibile che si faticherebbe a percepire se non fosse per l’economia che è in grado di muovere, riversando nelle tasche dei libanesi miliardi di Lire. Dall’affitto della terra su cui sorge la propria tenda agli acquisti fatti nei negozi locali, i siriani hanno generato in questi anni di conflitto un’economia di cui non possono beneficiare. Gli esuli della guerra sono allo stesso tempo indesiderabili e necessari per la società libanese. In campi dove prima si piantavano patate e zucchine ora crescono tende farcite di siriani, ben più redditizi e meno faticosi del lavoro agricolo. Basti pensare che qualche proprietario terriero arriva ad intascare addirittura 6000 $ l’anno, una piccola fortuna in questo folle paese.

 

Anche a Tel Abbas i problemi sono una sfida quotidiana e gli intoppi all’ordine del giorno. Lo stile di vita è modesto, per non dire disperato: la coda di persone che bussano alla nostra porta, bisognose di aiuto è costante. Fuori dalle nostre tende dalle colombe arancioni è possibile incontrare ogni genere di storia: da chi è scappato perché la sua città era stata rasa al suolo a chi ha dovuto sopportare la prigionia nelle carceri siriane, c’è pure chi ha perso la ragione a causa della guerra. Eppure uscendo dalla tenda inciampi in persone premurose, sempre curiose di sapere come stai e pronte a regalarti un sorriso. Persone che possiedono davvero molto poco, ma che sono pronte a metterlo in condivisione. Si incontrano facce stanche e segnate, ma che celano una fiera risolutezza. Il campo profughi di Tel Abbas è un piccolo villaggio coraggioso, un po’ sgangherato e chiassoso, dove anche i più piccoli sono dei grandi rivoluzionari. In questo campo dove prima crescevano patate ora si leva un coro silenzioso, è un canto tenace rivolto verso la speranza per un futuro migliore.

15/08/2017
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