Elezioni in Germania: l’analisi

 

di Jacopo Rosatelli

 

Abbiamo il voto tedesco ormai alle nostre spalle, ma è utile tornarci, provando a riflettere sul suo significato, per trarre – eventualmente – qualche spunto utile a chi è impegnato politicamente nel nostro Paese. La vittoria della Cdu-Csu è ascrivibile in grande misura al «fattore-Merkel»: la cancelliera è riuscita a convincere la maggioranza relativa degli elettori (41,7%) di essere la migliore amministratrice dei loro risparmi, la migliore garanzia del benessere acquisito di fronte ai rischi connessi alla crisi dei debiti europei. Pochi sogni e «visioni», molto pragmatismo «tedesco», lontano dalle asprezze ideologiche che avevano caratterizzato, ad esempio, la sua prima campagna da candidata cancelliera, nel 2005, quando sostenne tesi eccessivamente neoliberiste e per questo perse consensi che dai sondaggi sembravano acquisiti.

 

Un risultato che sembra contraddire una «legge» della politica, e cioè: si vince «facendo sognare», mobilitando i sentimenti e le passioni. Mi pare possa esserci una spiegazione: la mobilitazione emotiva, la visione, serve ai leader che vogliano innescare un cambio di ciclo, soprattutto se le elezioni cadono in un momento di crisi sociale e sfiducia. Quando le cose vanno generalmente bene – o almeno così è apparentemente –, il capo del governo uscente deve mirare essenzialmente a non suscitare una mobilitazione contro di sé. E così è stato. Merkel ha anche «riconquistato» una parte di elettorato tradizionalmente democristiano, che nelle precedenti tornate aveva dato il proprio voto ai liberali della Fdp: un partito che si è dimostrato incapace di gestire il successo ottenuto nel 2009 (precipitando dal 15 al 4,7%, sotto lo sbarramento).

Chi avrebbe dovuto generare quella che in tedesco si chiama Wechselstimmung, un clima (ma anche umore) di cambiamento, suscitando quindi le opportune passioni, non ci è assolutamente riuscito. La Spd guidata dall’ex ministro sessantaseienne Peer Steinbrück ha guadagnato appena il 2,7% rispetto a quattro anni fa, quando, dopo una legislatura di governo di grosse Koalition con Merkel cancelliera, ottenne il peggiore risultato dal dopoguerra: il 23%. Se si considera che i socialdemocratici erano al 40% all’inizio del settennato di governo di Gerhard Schröder (1998-2005), si coglie come il consenso perduto sia ancora lontano dall’essere ritrovato. Un consenso perduto anche e forse soprattutto in virtù delle scelte di politica economica e sociale, che per brevità possiamo definire neoliberali, compiute tanto dal gabinetto di Schröder quanto dalla successiva grande coalizione. Una linea che non è più quella dell’attuale Spd, ma che è stata rappresentata davanti agli elettori da un uomo-simbolo della stagione precedente, e dunque scarsamente credibile, quale è stato Steinbrück. Il quale, va riconosciuto, ha preso atto del proprio insuccesso e ha annunciato il ritiro dalla scena politica.

La debolezza della Spd spiega molto della sua prudenza, e della sua paura, nell’affrontare ora le trattative per la formazione del prossimo governo. Un’altra grosse Koalition – questo è il timore – rischia di fiaccare ulteriormente il partito, la cui base, forse, preferirebbe stare all’opposizione di un’inedita alleanza fra democristiani e Verdi, che con l’8,4% potrebbero essere per la prima volta nella storia il partner minore in un esecutivo federale insieme alla Cdu. Di fronte ad una scelta senza dubbio politicamente molto impegnativa, la dirigenza della Spd ha deciso che l’ultima parola ce l’avrà la base: se grande coalizione dovrà essere, a deciderlo saranno chiamati i circa 472mila iscritti. Nonostante il non eccelso stato di salute del partito, un segnale di fiducia nella partecipazione e nella democrazia interna che – vogliamo sperarlo – potrà servire da esempio per altre forze politiche al di fuori dai confini tedeschi.

10/10/2013
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