American Pastoral

Seymour Levov (E. McGregor), detto lo Svedese, è un idolo per la cittadina di Newark, alla fine della Seconda Guerra Mondiale: è stato un grande sportivo all’università, si è arruolato e poi ha sposato la bellissima Dawn Dwyer (J. Connely), ex miss New Jersey. Hanno avuto una figlia, la piccola e bionda Merry, che ha un problema di balbuzie, amatissima dai genitori. Lo Svedese gestisce una fabbrica di guanti, vive in una bella casa in campagna, è benestante, ha una donna e una figlia che adora. E’ l’incarnazione dell’american dream, dell’uomo di successo, ma soprattutto è felice.

Tuttavia quando la figlia Merry, ormai adolescente e sempre più insofferente verso di lui, inizia a frequentare gruppi politici che si oppongono alla guerra in Vietnam e che forse organizzano azioni violente, la crisi comincia a serpeggiare nella famiglia dei Levov. Quando l’ufficio postale salta in aria e ci scappa il morto, Merry scompare perchè forse coinvolta. Da allora, la vita di Seymour non sarà più la stessa. Tutta la vicenda è narrata dal fratello di Seymour, Jerry, all’amico di infanzia Nathan Zuckerman, a molti anni di distanza.

Ewan McGregor, a 45 anni e ben lontano dagli esordi di “Trainspotting”, esordisce alla regia con l’ambiziosa sfida di portare al cinema, il romanzo premio Pulitzer di Philip Roth, del 1997. E’ una scommessa difficile e infatti è vinta solo in parte: le contraddizioni e le sfumature sottili del bellissimo romanzo di Roth non sono traducibili in immagini. E’ un film diligente, un po’ inamidato, che appunto non può rendere il profondo cuore del libro: la storia di un padre che ha amato troppo sua figlia da non capire chi fosse diventata, incapace di accettare la sua vita che va a rotoli, per mano di un destino più grande di lui che non si merita. Lo Svedese è l’emblema di quell’America che implode su stessa, attraverso personaggi come Merry, mentre l’eco del Vietnam e del Watergate danno a tutta la vicenda un sapore ancora più amaro. Roth ha preso il migliore di noi (occidentali) e ne ha fatto la quintessenza del perdente, senza colpe apparenti. E con lui si infrange in mille pezzi una generazione e forse un’idea di società, non solo americana.

Tutto ciò si intuisce soltanto nel film, ma senza la forza delle pagine del libro, forse uno dei più grandi romanzi del Novecento.

Onore al merito di averci provato, ma non basta. Ottima prova degli attori e buona rievocazione d’epoca, con musiche funzionali.

 

20/10/2016
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