Al servizio di chi?

di Simone Bongiovanni, dal Libano

Un tappeto di scarpe sparse sul pianerottolo accoglie il nostro arrivo alla visita di oggi; dal numero e dalle forme si può intuire che deve trattarsi di una famiglia numerosa e con molti bambini. Non facciamo in tempo a fare una stima delle presenze nell’appartamento che la porta ci si spalanca davanti. Nella penombra del corridoio scorgiamo piccole sagome che corrono con passo insicuro da una stanza all’altra, eccitate da questa visita mattutina. Una ragazzina sui 13 anni ci fa strada all’interno della casa, facendoci accomodare in una piccola stanza arredata in modo modesto. Lì due donne ci accolgono con i consueti salamelecchi, mentre uno stuolo di bambini fa irruzione nella stanza incuriosito dalla venuta dei due ospiti stranieri.

A fare da contrasto a questa scena di confusione, su un materasso in un angolo, giace coricato faccia alla finestra un bambino. È visibilmente stanco e indossa la classica canottiera a righe nere e verdi da profugo, una di quelle che si possono comprare per un dollaro in molti negozi. Ha 9 anni e il suo nome significa letteralmente Servo di Dio, un nome comune nella cultura araba e dal significato profondo. È in Libano da ormai quattro anni, arrivato con i due fratelli maggiori, con la madre affidataria e i sette figli di lei. Il padre è disperso da qualche parte in Siria, mentre la madre biologica è morta a causa della guerra. In casa questo lo sanno tutti, tranne Servo di Dio. La notizia potrebbe aggravare le sue delicate condizioni di salute, perciò il bambino vive in una beata quanto necessaria ignoranza. Servo di Dio è affetto da leucemia da ormai due anni: come se la perdita dei genitori e l’esilio forzato non fossero già un peso gravoso per un bambino di appena 9 anni. La costante stanchezza di Servo di Dio è perciò dovuta alle medicine e ai trattamenti a cui è sottoposto settimanalmente. Le cure che gli vengono somministrate in un ospedale di Tripoli costano 200.000 LBP a trattamento, circa 130 $, che per intenderci equivalgono all’affitto mensile dell’appartamento in cui vive la famiglia. Un costo che risulterebbe gravoso anche per una comune famiglia libanese, immaginate per una famiglia di esuli siriani in cui solo due uomini possono lavorare e le bocche da sfamare sono molte.

Ecco riemergere con forza la follia del pianeta Libano, così ancorato alle tradizioni eppure così desideroso di slanciarsi verso i modelli del mondo occidentale, prima tra tutti l’America capitalista e consumista. Infatti, la sanità libanese funziona esattamente come quella del paese a stelle e strisce.  Non tanto per la tecnologia o per l’efficacia delle cure, ma per l’elitaria accessibilità e i costi esorbitanti. In questo mondo perverso tutto ha un prezzo, e tutto può essere monetizzato, comprato o venduto. Che siano ospedali statali o cliniche private il risultato non cambia: il paziente non è altro che un grosso bancomat a cui attingere per ogni pastiglia, flebo, prelievo, esame o medicazione. Un grande busines della sofferenza, in cui se non puoi pagare, allora non puoi riceve cure, equazione semplice e spietata del liberismo esasperato.

Per controbilanciare questa situazione di fragilità l’UNHCR e altre ONG hanno specifici programmi con cui sovvenzionare le cure dei malati siriani, coprendo il 75% o a volte il 90% delle spese mediche. Tramite Next Care e i fondi donati da stati finanziatori, l’agenzia per i rifugiati dell’ONU fornisce aiuti economici ai profughi bisognosi. Ma non tutto viene coperto dall’organizzazione internazionale. Le malattie croniche come il cancro e la leucemia, troppo costose e con scarse possibilità di un esito positivo, sono escluse dal programma. Per i bambini come Servo di Dio l’unica possibilità è quindi quella di appellarsi ad associazioni che si occupano specificamente di malattie oncologiche infantili.

Ma come un virus inarrestabile la logica del profitto e dell’efficienza ha contaminato anche il mondo dell’assistenzialismo. Prima di sottoporre un nuovo caso a queste organizzazioni bisogna fornire garanzie sulle possibilità di guarigione e tutti i casi che presentano un alto rischio vengono rifiutati. Oppure si sceglie la logica dei grandi numeri, perciò un trapianto di midollo non verrà mai finanziato, dal momento che il costo di una singola operazione equivale a quattro cicli di chemioterapia. In questo modo in televisione e davanti ai benefattori privati vengono sbandierati numeri e statistiche grandiose, con una percentuale di successo superiore al 70%.

Intanto Servo di Dio, come molti altri bambini, è costretto a restare fuori da ogni elenco o statistica. Quella sua mamma che non è sua mamma riceve volta per volta quelle poche donazioni che riusciamo a mettere insieme, dando per qualche settimana forza a questo piccolo Servo di Dio. Pensando al suo nome, tanto comune nel mondo arabo, mi sorge incontrollato un senso di fastidio, di nausea. Ho sempre pensato ci sia una profonda dignità nel mettersi al servizio di qualcuno, che si tratti di un Dio o di qualche bisognoso. Eppure come può essere che proprio quelle organizzazioni che si proclamano al servizio dei più deboli siano le prime ad abbandonarli? Al servizio di che cosa sono veramente? Prese dall’abitudine e dal pensiero a senso unico libanese si sono lasciate contaminare da questa mentalità folle, da questa perversione in cui tutto diventa numero e il numero diventa denaro. Ricevere aiuti, in Libano, è una questione di precisione maniacale. Bisogna essere sufficientemente bisognosi da attirare l’attenzione di qualche benefattore, ma non tropo disperati da diventare un rischio sull’investimento morale. Per pochi millimetri Servo di Dio è fuori dalla categoria degli “aiutabili”, e mentre sto scrivendo gli mancano solo due mesi e mezzo di cure. Noi siamo qui nella sua stanza, cercando di capire quali risorse raschiare questa volta. In cuor nostro sappiamo che non resta che appellarsi a quel bisogno di servire a qualcuno che risiede in ognuno di noi.

27/08/2017
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