27 gennaio – #abbattiamomuri

sito

Il 27 gennaio 1945 l’esercito sovietico aprì i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz, liberandone i superstiti e rivelando per la prima volta il genocidio sistematico perpetrato dai nazisti. Auschwitz è il simbolo dell’eliminazione sistematica di esseri umani, giudicati inferiori e non degni di vivere.
Il 27 gennaio venne abbattuto un muro. Un muro che nascondeva gli orrori dello sterminio, dello sfruttamento e dell’annientamento della dignità umana e della diversità.
Il muro rimane il simbolo del silenzio e dell’oscurità, ma oggi assume anche il significato di esclusione e di divisione, della mancanza di dialogo e della volontà di trovare risposte condivise.

Ogni anno Acmos celebra il 27 gennaio, Giorno della Memoria, proponendo una riflessione per ricordare ciò che è accaduto e mantenere viva la memoria, ma anche per ragionare sul presente e sugli impegni oggi necessari affinché fatti come quelli non si ripetano più.
Quest’anno scegliamo l’immagine dei muri come simbolo di memoria e impegno: muri di ieri, come quelli dei campi di concentramento, e muri di oggi che per noi assume connotati diversi:
Sono i muri che si stanno costruendo alle porte dell’Europa e che impediscono a uomini e donne di costruirsi un futuro diverso nei nostri territori.
Sono i muri costruiti nelle nostre città, che dividono i quartieri più poveri, creando dei ghetti chiusi e abbandonati
Sono i muri simbolici delle discriminazioni, costruiti su pregiudizi e stereotipi, che generano odio e paura
Sono i muri tra le persone, che impediscono il dialogo e la democrazia.
Nonostante l’abbattimento dei regimi totalitari e del muro di Berlino, nonostante la creazione dell’Unione Europea e dell’area Schengen, muri reali, politici, sociali o simbolici sono ogni giorni sotto i nostri occhi. Quali sono i muri di oggi che generano eslusione e discriminazione? Posta una foto sui social network con l’hashtag #abbattiamomuri

 

 

Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il cielo era basso e fosco.
Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima libertà,
sfilarono per l’ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto
e mi ero maturato, la piazza dell’appello su cui ancora si ergevano,
fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale,
e la porta della schiavitú, su cui, vane ormai,
ancora si leggevano le tre parole della derisione: «Arbeit Macht Frei», il lavoro rende liberi.
Primo Levi, La Tregua

26/01/2016
Articolo di